Quando la guerra è di moda, le riviste di moda vanno alla guerra. Il numero di Vanity Fair datato 9 marzo 2022 (ma in edicola dal 2 marzo al prezzo politico di “solo € 1”) ha in copertina il ritratto fotografico in bianco e nero di Volodymyr Zelensky, il Presidente dell’Ucraina attualmente invasa dall’esercito russo, con il titolo “Il volto della resistenza”. Il b/n fa risaltare i colori della testata: l’azzurro di “Vanity” e il giallo di “Fair” sono quelli della bandiera dell’Ucraina; ricordiamo che “Time”, che il 25 febbraio era uscito con la foto di un carro armato russo sotto il titolo “The return of History” (seppellimento definitivo di Fukuyama e Baudrillard), il 3 marzo ha messo in copertina gli stessi colori spennellati su sfondo nero e sovrastati da una scritta in cirillico (una frase dal discorso di Zelensky al Parlamento europeo: “La vita vincerà sulla morte e la luce vincerà le tenebre”) e che gli stessi colori – nell’esatta collocazione spaziale e del preciso numero Pantone – hanno caratterizzato nella stessa data “Corriere della sera” (opera firmata Mimmo Palladino) e “The Economist”.

All’interno di questo numero di Vanity Fair, i servizi fotografici riguardano come al solito i personaggi del mondo dello spettacolo: l’attrice Penélope Cruz “ci racconta la sua vera priorità”; il cantautore Dargen D’Amico “si toglie gli occhiali da sole (la sua cifra stilistica)”; l’attore Gian Marco Tognazzi “si sente libero” e così via gossipando. Giusto un paio di rubriche sono focalizzate sull’attualità politica: la giornalista freelance Anna Zafesova, autrice del recente Navalny contro Putin (Paesi Edizioni), prevede “l’inizio della fine di Putin”; Daria Bignardi (che qualcuno ricorda come conduttrice della prima edizione del Grande Fratello) riposta la copertina di un libro della scrittrice ucraina/bielorussa Svetlana Aleksievič, premio Nobel 2015 per la letteratura, intitolato La guerra non ha un volto di donna. L’editoriale di Simone Marchetti rivela: “Avevamo in serbo un’altra copertina, quella con Penélope Cruz: abbiamo deciso di tenerla comunque, come seconda cover, dopo l’immagine di Zelensky”. Insomma, volendo, la copertina con l’attore-politico si può togliere per ripristinare quella con l’attrice almodovariana, che fra l’altro esibisce un logo Chanel che stava anche sul berretto indossato dall’attore Zelensky quando interpretava un farsesco Bonaparte nella produzione Kvartal 95 Rzhevsky versus Napoleon (Vaysberg 2012). In tal caso la quarta di copertina diventa la poesia di Gianni Rodari sulla luna di Kiev (versi finali: “I miei raggi viaggiano / senza passaporto”) già da tempo virale sui social.

Moda e politica sembrano in contrapposizione come il fatuo e il serio, ma non è così: l’essere di moda è un problema che riguarda le vendite del settore abbigliamento ma anche i risultati del marketing elettorale. Vanity Fair aveva dedicato una copertina a Matteo Renzi “il salva-Italia” (ma posa alla Justin Bieber) nel novembre 2013, in tempo per le primarie del PD; in seguito si va da Maria Elena Boschi (“Il sogno del ministro”, 20 aprile 2014) al presidente Mattarella (“Cara Italia ti scrivo”, 9 giugno 2021). Ovviamente ogni edizione nazionale ha le sue preferenze nell’arco degli anni; ma certo sarebbe interessante avere un’indagine sul capostipite americano o ancor meglio sull’impero Condé Nast, che controlla anche “Vogue” e “The New Yorker”.

Moda e guerra sembrano in contrapposizione come l’euforia e la disforia, ma non è così: l’orrore dei campi di sterminio nazisti fu impattante proprio sulle pagine patinate di “Vogue”, che pubblicò i servizi fotografici di Lee Miller da Dachau e di Margaret Bourke-White da Buchenwald; shock maggiorato per quelli che ricordavano la bella Lee Miller come modella di “Vogue” (compresa la foto-scandalo di Edward Steichen per una pubblicità di assorbenti). D’altro canto, un’azienda di moda come Benetton innovò la propria comunicazione pubblicitaria – su consiglio del fotografo Oliviero Toscani, oggi ottantenne – eliminando l’immagine di prodotto e sostituendola con immagini fotogiornalistiche anche di guerra: un’uniforme insanguinata, un cimitero di guerra, un soldato che maneggia un osso servono forse a vendere più capi d’abbigliamento? No, ma l’associazione col marchio United Colors of Benetton (che si riduce ad un lettering bianco dentro un rettangolo verde) fa sì che qualunque altra immagine fotogiornalistica a colori possa far scattare la memoria di quel brand. Il circuito pavloviano stimolo/risposta può fare a meno del rinforzo positivo: la guerra vende. E dunque forse il ruolo propagandistico s’inverte: se Vanity Fair consacra il Presidente dell’Ucraina come “volto della Resistenza” (in un bianco e nero che all’improvviso rimanda ai primi film del Neorealismo), nello stesso tempo Zelensky fa da testimonial per una rivista di moda che vuole coinvolgere nuovi potenziali lettori nell’ennesima partecipazione sul tema pace (“Abbiamo bisogno di tutti voi: mandateci un messaggio, un video, una foto, una lettera, una mail, un vocale, quello che volete”).

Torniamo alla copertina. Il ritratto è accreditato a Paolo Pellegrin, fotografo Magnum vincitore fra l’altro di undici premi World Press Photo tra il 1995 e il 2018; questo primo piano è probabilmente la versione desaturata di uno scatto che fa parte di un servizio a colori pubblicato su “Time” (copertina del 16 dicembre 2019: “The Man in the Middle” cioè Zelensky che si sente preso in mezzo tra Putin e Trump). Trattandosi della foto del Presidente dell’Ucraina, il Roland Barthes dei vecchi Miti d’oggi l’avrebbe rubricata alla voce “Fotogenia elettorale”: nel santino elettorale, ci avvisava il semiologo, “Il candidato non dà a giudicare solo un programma, propone un clima fisico, un insieme di scelte quotidiane espresse in una morfologia, un modo di vestire, una posa”. Ma il ragionamento di Barthes sul potere di conversione della fotografia – sulla capacità d’indurre nello spettatore il riconoscimento di una profondità – è di portata più ampia: «Nella misura in cui la fotografia è ellissi del linguaggio e condensazione di tutta una «ineffabilità» sociale, essa costituisce un’arma anti-intellettuale, tende a schivare la «politica» (cioè un corpo di problemi e di soluzioni) a vantaggio di un «modo di essere», di uno statuto socio-morale» (Barthes 1994, p. 157).

Ma siccome questa immagine-affezione è anche quella del popolare comico televisivo, forse si può tornare sul saggio “L’attore di Harcourt” (lo Studio Harcourt, fondato nel 1933, divenne celebre per i ritratti dei divi dello spettacolo, primi piani in bianco e nero illuminati con lo stile creato da Henri Alekan): le foto firmate Harcourt forniscono «l’immagine olimpica di un attore che, deposta la pelle del mostro agitato, troppo umano, ritrova finalmente la sua essenza atemporale»; insomma un uomo di spettacolo che, apparentemente lontano dalle scene e dalla recitazione, appare «idealmente silenzioso, cioè misterioso, pieno del segreto profondo attribuito a ogni presenza che non parla» (ivi, p. 15). Ormai non c’è più un Barthes che c’insegni una “mito-logia”, una scienza del mythos ovvero dello storytelling; eppure ce ne sarebbe bisogno in epoca di guerra semiologica, quando nessuno sa spiegare perché i carri armati russi esibiscono una lettera Z (evidentemente di segno opposto a quella che compariva nel film di Costa-Gavras Z, dove la lettera proibita dalla dittatura dei militari greci significava “Panagulis vive”) prima o dopo che ragazze pacifiste arrestate si riprendono col cellulare (dentro il cellulare della polizia?!) mentre cantano Zombie dei Cranberries.

La testata Vanity Fair deriva dal romanzo che William Thackeray pubblicò nel 1848, dopo l’altrettanto celebre Barry Lyndon; solo che nel 1848 (anno del Manifesto del Partito Comunista) l’espressione “fiera delle vanità” denuncia la società borghese e il suo preteso fascino discreto, mentre nel 1983 (data di nascita del magazine newyorkese ma anche anno della crisi Usa/Urss descritta nel libro di Taylor Downing 1983: Reagan, Andropov, and a World on the Brink) l’edonismo reaganiano consente di utilizzare il termine in modo sfacciatamente positivo (come poi accadrà al “Grande Fratello” nel passaggio da Orwell al reality). Adesso che siamo di nuovo in the middle, nel mezzo di una crisi Russia/America, speriamo che la fiera delle vanità non diventi – come nel gioco di parole inventato da Tom Wolfe per il suo romanzo del 1987 (poi film di De Palma) – The Bonfire of the Vanities, il falò delle vanità.

Riferimenti bibliografici
R. Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1994.

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