La situazione è da instant book, e infatti a due mesi dall’invasione russa dell’Ucraina arrivano diverse biografie del presidente dal cognome cangiante: Zelensky, Zelenskyy, Zelens’kyj o Zelenskij secondo il metodo di translitterazione dal cirillico. Quella scritta da Emanuel Pietrobon – che la quarta di copertina definisce «analista geopolitico» ed «esperto di guerre ibride» nonché autore dei libri L’arte della guerra segreta e Resistance Economics (entrambi autopubblicati nel 2020) – si presenta come «la storia dell’uomo che ha cambiato (per sempre) il modo di fare la guerra». Vediamo dunque in cosa consisterebbe il “formato Zelenskij” partendo proprio dalla situazione attuale, quella del “primo leader on line in tempo di guerra”.

Due ore dopo l’inizio dell’invasione, il 24 febbraio 2022, compare il primo meme: Hitler accarezza Putin, proprio quello che parla di “denazificazione” dell’Ucraina come scopo della “operazione militare speciale”. L’inizio della resistenza ucraina è il video-selfie del 25 febbraio, girato in una Kiev serale e spettrale, con il presidente in tuta mimetica che annuncia “We are here” (traduzione e sintesi del “New York Times”). Il giorno dopo, attraverso i profili Twitter della diplomazia ucraina, un’altra frase iconica (messa in dubbio dalla rubrica “The fact checker” del “Washington Post”): «I need ammunition, not a ride» («Mi servono munizioni, non un passaggio» come risposta all’offerta americana di una fuga all’estero); battuta subito finita su maglie e felpe vendute su Amazon (ma da chi?). Il 28 febbraio la richiesta di adesione all’Unione Europea, firmata in un edificio abbandonato, in mezza giornata totalizza 63.000 like su Twitter e 17.000 condivisioni: sono grandi numeri?

Dal 24 febbraio al 6 aprile Zelenskij pubblica su Instagram 370 post, con una media di quasi dieci al giorno: «Video per rassicurare i concittadini, foto di presunti crimini di guerra e dei bombardamenti compiuti dall’esercito russo, appelli e/o critiche agli omologhi occidentali silenti, ringraziamenti ai partner che offrono aiuto e così via» (Pietrobon 2022, p. 61, corsivo mio). Il 26 febbraio i follower sono meno di dodici milioni, il 6 aprile più di sedici: ma perché Pietrobon i follower li chiama “seguaci”? Qualunque spettatore è già per definizione vittima della (così detta a p. 62) «macchina psico-informativa ucraina»?

Il “tour virtuale” che porta il presidente dell’Ucraina dai vari parlamenti occidentali fino all’assemblea generale dell’ONU e quasi fino alla notte degli Oscar – tour chiaramente concepito da professionisti della comunicazione secondo le antiche ricette della promocrazia (note dai tempi di Le Bon, Bernays, Lippmann e tutti gli altri persuasori occulti operanti prima dell’attuale mediascape) – vedono in Zelenskij più un attore che uno sceneggiatore; ma questo che vuol dire? Vuol dire che se ciò di cui parliamo è «la macchina propagandistica ucraina» (ivi, p. 81), «il cine-populismo applicato alle arti belliche» (p. 82) o addirittura «la prima guerra mentale» (titolo dell’intero capitolo), allora più che di Zelenskij stiamo parlando di “Zelenskij” fra virgolette, nel senso in cui Derrida virgolettava “bin Laden” per intendere che ciò che sembra un nome proprio va trattato come una sineddoche. E come Alain Badiou nel 2007 si chiedeva De quoi Sarkozy est-il le nom?, alludendo al fatto che le pretese personalità forti sono comunque sempre il frontman di un’intera classe sociale con i suoi interessi, in questa epoca in cui Huntington (Lo scontro delle civiltà) sembra aver vinto su Fukuyama (La fine della storia e l’ultimo uomo) dobbiamo chiederci: di che cosa Volodymyr Zelenskij è il nome?

Dire che VZ è un (ex) comico significa poterlo confrontare con il fenomeno Beppe Grillo, cabarettista che usando un linguaggio populista (il mitico “vaffanculo”, onorato con una festa specifica denominata Vaffa-Day, non è distante dalla pornolalia del professore di storia protagonista di Servant of the People) ha messo in piedi un movimento che è poi diventato un partito che ha vinto le elezioni ed è ancora al governo dell’Italia (il ministro degli esteri!); ovviamente senza scordare che dietro il “Grillo qualunque” c’era l’organizzazione di Gianroberto Casaleggio, autore nel lontano 1998 del libro Movie bullets. Cinema e management. Dire che VZ è un produttore televisivo, attraverso l’azienda Studio Kvartal 95, lo avvicina piuttosto a Berlusconi, non per la potenza imprenditoriale (la Neotelevisione fu una rivoluzione antropologica di dimensioni pasoliniane) ma almeno per la dimestichezza con la videocrazia; se il cinepopulismo è quel mondo comunicativo «dove la realtà viene e/o può essere trattata come se fosse una sitcom e dove ogni problema può essere tradotto in barzelletta» (ivi, pag. 32) allora il prefisso cine- vale quanto il prefisso tele-.

Per entrare davvero nell’aspetto “cine”, bisogna rivedere il video (durata 22 secondi, a colori, formato verticale a simulare la ripresa fatta mano con un telefonino) diventato virale il 20 aprile: nel cielo di Mosca compare un’astronave che è in realtà una nave da guerra, che prima si conficca di prua nella cattedrale di San Basilio poi si rovescia addosso al Cremlino; mentre i presenti scappano dalla piazza, lo schermo è oscurato dalla fiammata di un’esplosione. Il video, un piccolo capolavoro anonimo degli effetti speciali digitali, unisce in modo sconvolgente l’aggressività del significato politico con l’aggressività del significante cinematografico: da un lato, il messaggio è che la nave da guerra Moskva affondata nel Mar Nero (che per Kiev è stata colpita da missili ucraini) viene rispedita al mittente, prefigurando la capacità dell’Ucraina di bersagliare il territorio russo; dall’altra, il livello avanzato degli effetti speciali (che rimanda ad un altro famoso video, postato dai fondamentalisti islamici, in cui a crollare rovinosamente su Parigi era la Tour Eiffel) suggerisce una capacità di gestione cinematografica (cioè finzionale) che lascia presagire un possibile universo di fake news visivamente credibili.

Ma per entrare ancora più decisamente e approfonditamente nella dimensione “cine”, che non è solo produttiva ma innanzitutto programmatica, bisognerà prima o poi riscrivere al rallentatore gli eventi che precedono e seguono il cruciale 2014: se la prima stagione di Servant of the People parte nel 2015, questo significa che il progetto risale esattamente al ribollente periodo di Euromaidan, la guerra del Donbas, l’occupazione della Crimea; Zelenskij non è un leader politico che accidentalmente prima faceva l’attore comico e il ballerino, bensì un imprenditore dei media (Pietrobon riporta la battuta «Osservo le cose [della politica – ndr] come se fossi un produttore») che coinvolge tutto il suo staff in una nuova particolarissima impresa (non a caso il suo partito nuovo di zecca, che si chiama come il serial Servant of the People, è emanazione diretta dello Studio Kvartal 95).  Ai posteri (e ai poster) l’ardua sentenza: se VZ passerà alla storia come lo sgamato attore della politica-spettacolo o come l’eroe dell’identità nazionale ed europea, come l’inventore del cinepopulismo o – per dirla col titolo della canzone scritta da Eugene Hütz (ex Gogol Bordello) e Les Claypool (ex Primus), il cui videoclip ruota attorno al busto marmoreo di Zelenskij formato imperatore – come The man with the iron balls, l’uomo con le palle d’acciaio.

Riferimenti bibliografici
A.L. Urban & C. McLeod, Zelensky, Regnery Publishing, Washington 2022.
E. Pietrobon, Zelenskij, Castelvecchi, Roma 2022.

Emanuel Pietrobon, Zelenskij, Castelvecchi, Roma 2022.

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