«Pensare l’immagine vuol dire rispondere del destino della violenza. Accusare l’immagine di violenza nel momento in cui il mercato del visibile esplica il suo effetto contro la libertà significa fare violenza all’invisibile, ovvero abolire il posto dell’altro nella costruzione di un vedere condiviso». Con queste parole si chiude un bel saggio di Marie-José Mondzain L’mmagine che uccide (p. 137). Ed è questo interrogativo sul residuo invisibile che permette all’immagine di convertire la spinta, lo slancio, l’atto, il taglio violento custodito in ogni immagine e farne una traiettoria di ascesi che si pone in un film mirabile come Zan di Tsukamoto Shin’ya.
Lo stesso titolo, che vuol dire “uccidere” appare a solcare lo schermo come una lama. È un suono, una linea grafica, un taglio che suscita l’immagine, e l’immagine, come sempre in Tsukamoto, si diffonde spinta e suscitata da un implacabile dispositivo che ne potenzia e ne scatena il tasso invisibile di violenza. Si tratta qui di un apprendistato all’uccidere, inscritto nell’andamento avvolto dentro l’oscurità dell’inoltrarsi in una foresta. Siamo nell’ambito, kurosawiano, del “chambara”, del film di Samurai. Mokunoshin, apprendista ronin, deve percorrere un cammino di formazione lungo i sentieri misteriosi dell’atto di uccidere. Quale il senso dell’uccidere? Come rapportarsi a un atto di morte, del dare la morte? Atto che deve conseguire da una gestione della potenza, che deve solcare l’impasse tra pre-meditazione e messa in atto, che è anche una messa in forma. Ciò è anche lo stato “amletico” del nesso pensare-agire, che si esplica nei codici del potere, per enuclearne uno stato puro della potenza.
Ma il dare la morte, il gesto dell’uccidere viene mantenuto qui come in continua sospensione, alla ricerca incessante di accedere a una forma. E il moto più emozionante del film è questo addentrarsi nell’intricato “bosco” della morte, presentandolo anche come un “bosco d’amore”. Le scene in cui l’atto d’amore interseca la dolcezza del gesto (letteralmente il manipolare del corpo amoroso) con l’accumularsi e l’intensificarsi del percorso nel “killing”, assumono insieme la fisicità e la metaforicità di un disegno trascendentale. Ma, d’altra parte, è l’inoltrarsi nell’immanenza del luogo, che è segno di uno stato mentale così come è estroflessione, “arborescenza” di un set che si fa dispositivo dove natura e simbolo, visibile e invisibile, umano e transumano si intersecano. In questo senso il “farsi” del film, nell’apprendistato, nell’addestramento, nell’acting rispetto all’“uccidere” assume un senso fortissimo e quasi metafisico, oltre che meta filmico, in considerazione del fatto che a interpretare, ed assumere, il ruolo di addestratore, iniziatore, del “training” entro cui si schiude il film, tra inoltrarsi nel buio e ascendere verso il cielo, è ricoperto dallo stesso Tsukamoto.
Sawamura, ieratico samurai, è l’intercessore non solo dell’atto entro cui si districa il giovane ronin, ma dell’intera macchina implacabile, del dispositivo rizomatico in cui si sdipana il film. Il dischiudersi del luogo, e gli elementi naturali, il fuoco e la terra innanzitutto, spostano ed elidono gli ambienti metropolitani cui il cinema di Tsukamoto, sempre incastonato in un proliferarsi tra corpo e metallo, tra biomorfosi e architetture tecnologiche, ci ha abituati. Qui è una natura oscura e trascendentale a impiantarsi e ad affidare il film a una coalescenza tra gesto attorico, disegno del corpo e arborescenza simbolica. Scrive Jean-Luc Nancy in L’approssimarsi, contenuto nella raccolta Il peso di un pensiero, l’approssimarsi:
Mi avvicino a questo luogo situato al limite della foresta. […] Io passo dall’humus […] Il luogo non è mai altro se non, anzitutto, questa apertura di se stesso fuori di sé. In un’intersezione dello spazio e del tempo, il luogo espelle la sua spazialità – la sua dimensione, la sua localizzazione – in una condensazione temporale, in un momento, una sospensione, qualcosa di eterno. Nello stesso tempo, raccoglie e avvolge il tempo nella disposizione di spazio: la durata è in stanca, non abolita ma addensata e svasata (Nancy 2009, pp. 108-111).
Ecco, Zan si gioca e si rilancia nel “farsi prossimo”, nell’approssimarsi della potenza all’atto, si costruisce nell’impasse del gesto e nel passaggio iniziatico della ferita simbolica, si consuma e si sfasa nel bruciare e nell’ascendere. In tal senso l’atto di uccidere, l’assassinio come abolizione e insieme incontro violento con l’altro, incorporazione e dislocazione, diventa, come diceva De Quincey, “una delle belle arti”. La prima immagine del film, le fiamme prossime allo schermo, come un aggancio e insieme una predisposizione, riparte dall’ultima immagine del precedente Nobi. Fires on the Plain (2014), altro film sulla pulsione assassina e su un luogo metafisico di violenza bellica. Ma è come un presupposto, che sposta indietro, al momento della scelta, del senso dell’atto, ciò che in quel film era la pluralità invisibile della violenza. Qui si tratta di una singolarità che ha a che fare con l’atto sacrificale della singola vittima. Ed è significativo che il sacrificio se lo addossi l’istruttore, il samurai-regista, l’occhio e il gesto di Tsukamoto stesso che compie sul suo attore e sul suo set il passo di sacrificio, filmare il processo di passaggio, la formazione e l’enucleazione dell’invisibile della violenza nelle immagini.
Sono allora le immagini, il loro affilarsi su una lama, il taglio che producono, il gesto di cui sono amplificazione, la trafittura che interpongono, affondando nella ferita, tra il nostro corpo, il mio corpo, il corpo singolo e quello dell’altro da sé, sia in un atto di uccisione che in un atto d’amore, ad essere forma trascendentale del loro rovescio, dell’altro lato, dell’invisibile, cui accedere come una risalita. È un processo di ascesi, come è figurato dalla metafora delle coccinelle che risalgono delle radici sul tronco degli alberi, prima di spiccare il volo. Questo risalire è il segno di un processo di individuazione, di una estroflessione dell’oscurità verso una trasparenza. Risalire dalle radici al tronco e involarsi, l’ascesa/ascesi, travalica l’atto di uccidere e lo traspone nel finale lancinante, magnifico, quando una sagoma umana, un’ombra che insieme grazia e minaccia, assolve e condanna, si intravede, umano ridotto a parvenza, come in un sogno. Oscuro, il vagare nel buio, oscillazione dello sguardo, inoltrarsi incerto e basculante nella ramificazione che produce ogni nostro atto e si ripercuote nell’universo.
Riferimenti bibliografici
M.-J. Mondzain, L’immagine che uccide, EDB, Bologna 2017.
J.-L. Nancy, Il peso del pensiero, l’approssimarsi, Mimesis, Milano 2009.
B. Roberti, a cura di, Nel corpo del dispositivo. Conversazione con Tsukamoto Shin’ja, in “Fata Morgana”, n. 24, 2014.