L’immagine decisiva di Wittgenstein – è appena stato ripresentato in una versione restaurata – il film del 1993 diretto da Derek Jarman con la collaborazione del critico letterario Terry Eagleton (Jarman sarebbe morto all’inizio dell’anno successivo per le conseguenze dell’infezione da HIV che alla fine lo rese cieco), è quella in cui vediamo il filosofo austriaco chiuso in una grande gabbia, che a sua volta – ricorsivamente – ne contiene un’altra con un pappagallo verde. Il riferimento quasi letterale è alla conclusione della celebre Conferenza sull’etica di Wittgenstein: «Cioè, voglio dire: vedo ora come queste espressioni prive di senso erano tali non perché non avessi ancora trovato l’espressione corretta, ma perché la loro mancanza di senso era la loro essenza peculiare». Le espressioni “prive di senso” sono quelle che hanno la pretesa di formulare un “valore assoluto”, ad esempio sul bene in sé o sull’esistenza di dio.
In effetti su questo mondo ogni affermazione non può che essere relativa e contingente: non possiamo parlare del mondo, ma al più del “nostro” mondo. Al contrario potrebbe formulare un’affermazione “assoluta” – cioè appunto non relativa – solo chi si trovasse al di fuori del mondo, cioè chi non fosse costretto ad essere confinato all’interno del mondo e del linguaggio che non può che essere legato a questo stesso mondo. Per questa ragione «la loro mancanza di senso era la loro essenza peculiare», perché – essendo soltanto affermazioni relative – ogni tentativo di asserire qualcosa di assoluto non può che essere insensato. Così infatti prosegue Wittgenstein: quelle affermazioni erano “prive di senso” perché
con esse io mi proponevo proprio di andare al di là del mondo, ossia al di là del linguaggio significante. La mia tendenza e, io ritengo, la tendenza di tutti coloro che hanno mai cercato di scrivere o di parlare di etica o di religione, è stata di avventarsi contro i limiti del linguaggio. Questo avventarsi contro le pareti della nostra gabbia è perfettamente, assolutamente disperato (Wittgenstein 1967, p. 18).
Anche il pappagallo verde è chiuso in una gabbia. Quindi l’uomo nella gabbia è come l’animale chiuso nella gabbia. Ma c’è una differenza, forse, fra i due reclusi: il primo, il filosofo (interpretato da Karl Johnson, che somiglia molto a Wittgenstein), come ci ha appena detto, vorrebbe uscire dalla gabbia perché aspira ad una visione “assoluta” del mondo, quella visione, cioè, che si potrebbe avere soltanto uscendo dal mondo. Ma è evidente che nessuno può uscire dal mondo, tutt’al più si può provare a vivere in un altro mondo.
Anche il pappagallo verde, probabilmente, vorrebbe uscire dalla gabbia (anche se non è scontato, la sua prigionia è confortevole, in prigione si mangia gratis), tuttavia non crediamo che sogni di uscire del tutto dal mondo. Forse vorrebbe vivere in un mondo un po’ meno angusto, ma è difficile che sogni di vivere fuori da ogni mondo possibile. Allo stesso tempo l’animale potrebbe implicitamente mostrare al filosofo che un’altra vita è possibile: si può stare nel mondo come se fosse il mondo, e non un mondo qualsiasi. L’animale, cioè, vive in modo assoluto un mondo relativo.
In questo senso il film di Jarman mette in scena il contrasto fra il chiuso e l’aperto, fra lo stare nella gabbia del linguaggio e il desiderio di uscirne, fra il buio nerissimo che compare in tutto il film (il drammatico contrasto fra i volti illuminati su un fondale senza illuminazione rimanda alla pittura di Caravaggio, a cui Jarman aveva dedicato un film nel 1986) e la luce del cielo, che infatti si vedrà solo alla fine del film (tuttavia anche in questo caso il cielo che si vedrà sarà solo un fondale teatrale; il fuori è sempre un ‘fuori’ relativo, un “fuori” rappresentato, mai assoluto e definitivo).
Se allora, come scrive lo stesso Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche, «qual è il tuo scopo nella filosofia? – Indicare alla mosca la via d’uscita dalla trappola» (Wittgenstein 1974, § 309), nel film vediamo questo stesso tentativo, con Wittgenstein che è contemporaneamente il filosofo che vuole aiutare la mosca a uscire dalla trappola ma anche la stessa mosca che deve essere aiutata a liberarsi. Ma come può, la mosca, essere nello stesso tempo nella trappola e fuori della trappola (essere cioè il filosofo che, dall’esterno, prova ad aiutare la mosca intrappolata)? In una nota del suo diario del martedì 18 aprile 1990 Jarman scriveva, proprio a proposito di Wittgenstein:
Programma televisivo su Wittgenstein che non ci ha detto assolutamente nulla. Tutto ciò che ho capito è che ha trascorso una vita a “sfatare la tradizione”, cosa, non l'abbiamo mai scoperto. Ha vissuto la vita di un nevrotico recluso in una capanna di legno. Un compagno di viaggio? Sempre in divenire, mai in arrivo. La vita è in stallo: solo le idee passano. In questa confusione mi ritrovo a rincorrerle: Ehi! Fermatevi! Fermatevi! Ma loro scappano, lasciandomi a fissare una grigia primavera inglese (Jarman 2009, p. 59).
Le idee scappano, proprio lo stato d’animo che rende così diversa la condizione di Wittgenstein nella gabbia rispetto a quella del pappagallo nella sua gabbia incassata nella prima. In fondo essere imprigionato non vuol dire tanto essere rinchiuso in uno spazio ristretto, piuttosto immaginare che oltre le sbarre ci può essere un’altra vita, una vita se non migliore almeno diversa da quella nella gabbia. Solo chi si figura un mondo al di là delle sbarre è, propriamente, chiuso in trappola.
Tuttavia il pappagallo verde, come abbiamo visto, ci ricorda anche che una vita diversa, pur rimanendo dentro la gabbia, è possibile. Invece di desiderare la vita che non si vive, c’è la vita che effettivamente si sta vivendo, quella della “primavera inglese”, che è “grigia”, è vero, ma che non smette di essere una “primavera”. Forse il punto è fermare le idee che scappano via, e in questo modo la vita si animerebbe, e smetterebbe di essere “in stallo”.
In effetti nel film compare in diversi momenti un’altra figura verde che ha le sembianze di un marziano (impersonato dall’attore Nabil Shaban). C’è un dialogo, in particolare, fra l’omino verde e il giovane Wittgenstein (Clancy Chassay) in cui la funzione del colore verde (Jarman era anche un giardiniere) appare in tutta evidenza: il verde, cioè la natura, spezza sempre il rigore della logica, e mostra una via d’uscita sempre a portata di mano, una via d’uscita che non vediamo solo perché siamo sempre trascinati via dai pensieri che ci offuscano la vista del mondo com’è (come le dice l’artista Maggi Hambling il 3 gennaio 1989, con cui stava parlando del suo giardino: «Oh, you’ve finally discovered nature, Derek» (ivi, p. 8).
Ave, terrestre. - Terrestre? Sono un filosofo, Ludwig Wittgenstein. Lei chi è? - Può chiamarmi Mister Green. Posso farle una domanda: quante dita hanno i filosofi? - Dieci. Affascinante. È il numero di dita degli esseri umani. - Mister Green, i filosofi sono esseri umani e sanno quante dita hanno. Oh, cielo. Questo significa che i marziani non possono essere filosofi? - Oh, Dio.
I pappagalli, come i marziani, non sono filosofi, e non lo sono proprio perché non hanno bisogno di inseguire le idee che, come sappiano, “passano” (non fanno altro che volare via) e passando così velocemente finiscono per far sembrare la vita così com’è (la vita dove tutti sanno che le dita dei piedi sono dieci) “in stallo” e quindi immobile. Ci vuole un marziano, allora, o un pappagallo, per scoprire che la salvezza non è fuori del mondo, ma qui, nel mondo che è anche l’unico mondo in cui possiamo vivere. In effetti la figura concettuale del marziano, o meglio di Marte, compare qualche volta negli scritti di Wittgenstein, sempre allo scopo di mostrare la relatività del punto di vista umano. Così, ad esempio, scrive nelle Osservazioni sui fondamenti della psicologia: «Una stazione ferroviaria con tutti i suoi impianti, pali e cavi telegrafici, significa per noi un sistema di traffico dalle ampie ramificazioni. Ma se questa costruzione si trova su Marte con tutti i suoi annessi e connessi, compreso un tratto di rotaie, là essa non significa niente del genere» (Wittgenstein 1990, § 372).
Il marziano “insegna” al giovane e presuntuoso filosofo per un verso che non esiste un solo modo di vivere, e che non serve andare su Marte – ossia abbandonare la terra – per scoprire il senso della nostra vita dall’altro. Wittgenstein, allora, è un film che mostra la fatica di imparare a stare al mondo, un mondo che è il mondo verde della vita, un colore che tuttavia ci è così sconosciuto da scambiarlo per un colore che viene da un altro pianeta. «Come mi riesce difficile» – scrive Wittgenstein in un appunto del 1940 – «vedere ciò che è davanti ai miei occhi» (Wittgenstein 1977, p. 78).
Nonostante il nero che ci accompagna per tutto il film Wittgenstein è allora un’ode al colore e alla vita. È la luce che salva, e la luce, per noi animali terreni, è quella verde dei prati e delle piante. Come scrive lo stesso Jarman in un appunto preso nel Prospect Cottage, una casa di pescatori acquistata nel 1986 che si trova nel promontorio di Dungeness sulla costa del Kent (e vicina ad una centrale nucleare, a ribadire che la natura, oggigiorno, non è mai incontaminata):
Il verde arcaico colora il tempo. I secoli che passano sono sempreverdi. Alla malva appartiene un decennio. Il rosso esplode e si consuma. Il blu è infinito. Il verde veste la terra di tranquillità, fluttua e scorre con le stagioni. In esso c’è la speranza della resurrezione. Sentiamo che il verde ha più sfumature di qualsiasi altro colore, mentre le gemme rompono l'inverno nelle siepi. Giornate di sole allucinanti (Jarman 1994, p. 67).
Riferimenti bibliografici
D. Jarman, Modern Nature, Minnesota University Press 2009.
Id., Chroma: a book of color, June ‘93, The Overlook Press, Woodstock 1994.
L. Wittgenstein, Lezioni e conversazioni, Adelphi, Milano 1967.
Id., Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1974.
Id., Osservazioni sui fondamenti della psicologia, Adelphi, Milano 1990.
Id., Pensieri diversi, Adelphi, Milano 1977.
Wittgenstein. Regia: Derek Jarman; sceneggiatura: Derek Jarman, Terry Eagleton, Ken Butler; fotografia: James Welland; montaggio: Budge Tremlett; musiche: Jan Latham-Koenig; produzione: BFI Production, Bandung Productions, Channel Four Films, Uplink; distribuzione: Mikado Film; durata: 75′; anno: 1993.