A trentun anni dalla prima produzione (maggio 1986, New York University), Robert Wilson è tornato a mettere in scena Hamletmachine di Heiner Müller, in questi giorni al Teatro della Pergola di Firenze. Il rapporto tra il regista e il drammaturgo, che ha visto numerose collaborazioni nel corso del tempo, si inaugura proprio all’insegna di quel testo, che Müller elabora confrontandosi con Wilson e leggendo, da tedesco della DDR, suggestioni shakespeariane nelle contraddizioni della storia politica dell’Europa orientale.
L’autore dichiarò di essere rimasto colpito dalla vicenda di László Rajk. Ministro degli Interni Ungherese, di rigida ortodossia stalinista e persecutore di dissidenti, fu condannato però a morte perché egli stesso sospettato di spionaggio filocapitalista ai danni del governo del suo paese, e infine riabilitato come comunista proprio in quel 1956 che vide rivolta e repressione manu militari a Budapest. Immaginando la possibile situazione di un figlio di Rajk, assassino ingiustamente assassinato e poi glorificato dal medesimo sistema di potere, il drammaturgo tedesco rivede Amleto, alle prese con la memoria di un Padre impossibile a onorarsi eppure sempre cercata, difficile da elaborare una volta per tutte.
L’opera di Müller si pone decisamente al di là del côté edipico alla radice di tante interpretazioni moderne dell’opera del Bardo, generandone nuovi motivi, che nella messa in scena di Wilson (a sua volta, un’interpretazione) si amplificano. Riproponendo nel 2017 Hamletmachine, il regista texano compie una doppia operazione: lo spettacolo si pone come ripresa che conserva i caratteri della prima produzione (seppur sostituendo agli studenti-attori della New York University di allora quelli dell’Accademia Silvio D’Amico di oggi), e insieme ne è l’aggiornamento. Ciò che entrava in risonanza con la storia politica di un’Europa che nel 1986 è ancora divisa in due blocchi, quando non si sono consumati ancora del tutto cadute di metanarrazioni e parricidi ideologici, ora dice (anche) di un’Europa in cui di fatto le frontiere esistono ancora, solo più liquide. La macchina è dunque ancora attiva. È questo ciò che interessa a Bob Wilson: cosa la machine sia, come funzioni.
Mentre il pubblico sta prendendo posto, due degli attori impegnano già lo spazio della performance. Lo spettatore può inferirne, da un lato, che qualcosa sia già in corso, o che possa anche aver avuto luogo in sua assenza, come se quelle figure non necessariamente fossero lì per lui; dall’altro e al contrario, che non facevano altro che aspettarlo, chissà da quanto tempo presenti. All’apparenza immobili e statuari, resi come lontani nei loro volti imbiancati illuminati da luci azzurre (entrambi costanti nel lavoro di Wilson), sono però percorsi da micromovimenti che in tutto ci sembrano automatizzati, quali prodotti, appunto, di una meccanicità schizoide. Per i cinque quadri che compongono lo spettacolo, a una serie di segnali acustici e con un motivetto di piano insieme infantile e inquietante, gli altri attori affollano a turno la scena, ciascuno chiuso nella sua sequenza di gesti automatizzati, per poi nuovamente abbandonarla. Di volta in volta le figure orientano i propri movimenti verso una differente parete del palco, bianca tra le altre nere.
La ripetizione, il suono, la gestualità e la parola che affiorano come tic nevrotici, tutto, insomma, contribuisce a rendere l’impressione di una macchina. L’Hamletmachine del titolo è quindi soprattutto la macchina dell’Amleto in quanto tragedia, storia di cui si è ingranaggi, una mouse-trap del potere dove i corpi non sono che soldatini da far giostrare, e insieme macchina teatrale. Le prime parole pronunciate sembrano quelle infatti di un attore che si denuncia in quanto tale, “Io ero Amleto”, ingranaggio tra gli altri della stessa macchina. Soggetto a e non di racconto, dunque, che non può più affermare di essere (o non essere) qualcuno, ma al massimo potrà dire, più avanti “Io non sono Amleto. Non recito più alcun ruolo.”
Vengono pronunciate anche quelle che, in una drammaturgia più consueta, sembrerebbero indicazioni sceniche sui movimenti, le intenzioni e le intonazioni delle battute, quasi che avessero un loro valore autonomo: sono i brandelli di un ordine normativo, le istruzioni che la macchina testuale-teatrale predispone per i suoi ingranaggi. La parola, per quanto capace di conservare forza poetica anche nella durezza del linguaggio e delle immagini che veicola, è meccanizzata a propria volta: lo stesso monologo si frammenta nelle bocche di più attori, fino a sembrare brano tratto da un testo a propria volta frammentario, orfano di un padre non più garante di alcun ordine, che viene rimpianto nello stesso momento in cui lo si sa inaccettabile.
Nella messa in scena di Wilson l’attore come ingranaggio di una partitura è dunque Über-Marionette che si staglia a comporre quadri da Stilbühne contro la parete bianca, che di quadro in quadro si sposta da un lato all’altro del palco e nel penultimo di essi coincide col boccascena: non può darsi rappresentazione, né spettacolo, tutto è nascosto. La parete scherma dunque dalla visione di qualcosa, ed è insieme schermo sul quale si proietta qualcosa che non sta accadendo qui ed ora: immagini tratte dalla prima rappresentazione newyorkese.
È proprio al massimo dell’occultamento, paradossalmente, proprio quando la palpebra della parete bianca si chiude sul boccascena, che la macchina si manifesta appieno e rende manifesto un teatro inteso in senso etimologico come un “vedere” (théaomai). Con lo stesso gesto si rivela dunque il meccanismo principale al cuore della macchina teatrale come della macchina di potere: entrambe necessitano, per il proprio funzionamento, di esporsi allo sguardo di qualcuno, di spettacolarizzarsi, tanto nel 1986 quanto nel 2017. Nell’uno come nell’altro caso, Amleto (o meglio: gli ingranaggi che ne fanno la funzione, i tre attori che si spartiscono i suoi monologhi) sta “Dando le spalle alle rovine d’Europa”, a un racconto polverizzato, a una narrazione divenuta puro meccanismo che continua a funzionare per automatismo, insomma a un’immagine che può riproiettarsi all’infinito.
In questo senso, l’Hamletmachine di Wilson (infatti il principale esponente – o padre, anche lui – di ciò che si è chiamato Teatro Immagine), come macchina automatica del vedere, sembra assimilabile al dispositivo cinematografico. Cinema che affiora in maniera evidente tanto nel segno della parete-schermo, o nella luce che modula in maniera netta corpi, strutturando e razionalizzando lo spazio, e persino interiezioni, fratture dei monologhi con accensioni e spentimenti improvvisi e repentini. Il visuale è meccanismo principe della partitura se il funzionamento della macchina (anche sonora) è nell’esporsi.
Per incrinare il congegno di spettacolarizzazione, allora, occorre sottrarsi allo sguardo. L’uscita di scena è infatti affidata a un femminile dolente e vendicativo: Ofelia (che nei suoi monologhi si assimila ad Elettra e a Lady Macbeth), scoria che “il fiume non ha trattenuto”, virus nella macchina, pur dicendosi sulla sedia a rotelle (di nuovo, una macchina), urla la propria inestinguibile rivolta. Come lei viene avvolta da bende di contenimento, così la mouse-trap della scena si cinge delle tende bianche su ogni lato, ponendo fine dunque a una vita degradata a pura rappresentazione, alla macchina da spettacolo. E con ciò, al nostro essere spettatori.
Riferimenti bibliografici
H. Müller, Hamletmaschine, in Teatro II, Ubulibri, Milano, 1991.
J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna: rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1981.
Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2000.