Sperare nella possibilità di una convivenza tra umani e androidi; garantire la salvezza dei primi distruggendo le illusorie simulazioni che minacciano la realtà; catalogare l’infinità dei comportamenti e delle scelte per produrre esseri viventi sintetici nei quali impiantare la coscienza e la mente di pochi ricchi eletti; annientare l’umanità per assicurare ai secondi libertà di scelta e di azione, al di fuori delle trame preconfezionate per cui sono stati creati; ricongiungersi con la propria figlia abbandonata molte vite fa e dimenticata a causa di una brutale riprogrammazione. Quelli elencati sono i desideri a cui anelano Bernard, William/Man in Black, Charlotte, Dolores e Maeve: ciascuno di questi personaggi abita una storia, una linea narrativa che si intreccia con l’altra e che induce gli spettatori a rivedere e commentare su Reddit e sui social network gli episodi di Westworld, alla ricerca di dettagli e omissis.
Se questo è l’intrattenimento che trattiene i fan di fronte agli schermi, dilatando e modificando il tempo del racconto e della sua fruizione, la struttura a incasso delle diverse linee narrative e temporali arriva ad assorbire completamente sia i suoi personaggi sia gli spettatori. Per riprendere la categoria di serialità complessa elaborata da Jason Mittell, Westworld sfrutta una riflessività funzionale mediante la quale sono i modi di funzionamento del testo ad essere messi in forma con l’obiettivo di «coinvolgerci nella storia e farci ragionare sui suoi meccanismi narrativi» (Mittell 2017, p. 91).
La seconda stagione di Westworld si regge su due elementi che mettono continuamente in discussione l’esperienza narrativa e il patto di lettura con gli spettatori. Il primo concerne il tempo del discorso, ossia la riorganizzazione del tempo della storia attraverso l’uso di un lungo flashback che domina l’intero arco degli eventi narrati e ne altera la linearità cronologica. Il secondo elemento è un paradosso ermeneutico che si produce a partire dalle trasformazioni dei personaggi che interagiscono e ricordano all’interno del grande parco a tema in cui questi ultimi sono confinati. Infatti, la scaturigine della seconda stagione, preannunciata dal finale della prima, è la rivolta degli host, androidi dotati di capacità cognitive molto avanzate, che costringe i guest, i visitatori umani, a fuggire dalla furia dei ribelli e a cercare un modo per sopravvivere alla violenza che essi stessi hanno generato con i loro comportamenti aberranti tra le lande di cui si compone il panorama da Far West del parco dove tutto è concesso. Durante tutta la stagione gli spettatori sono portati a dubitare di quello che sta accadendo sullo schermo perché il confine che separa le diverse forme di vita diventa sempre più sottile fino ad infrangersi, ribaltando le credenze sulle capacità comportamentali e cognitive di umani e androidi.
Il gioco sul e con il tempo (il primo elemento) e le sollecitazioni rivolte allo spettatore che deve riformulare i presupposti che guidano la comprensione e l’interpretazione degli eventi (il secondo elemento) sono i fondamenti strutturali di Westworld già a partire dalla prima stagione e probabilmente caratterizzeranno anche la terza, in cui lo spazio dell’azione sarà proiettato al di fuori del parco, verso un ambiente “reale” e non più simulato e controllato.
La ricorsività con cui questi due elementi vengono tematizzati da una stagione all’altra li rende la principale cifra estetica di una delle serie prodotte dalla HBO che, dopo Games of Thrones, ha raggiunto gli indici d’ascolto più alti. È dunque lecito domandarsi se le alterazioni temporali dei mondi narrati e il costante rimando all’attività ermeneutica dello spettatore, che continuamente deve rivedere la sua posizione interpretativa, non possono essere “estratti” dall’opera di Jonathan Nolan e Lisa Joy ed innestati all’interno di una riflessione più ampia, volta a comprendere la forma assunta dalla serialità contemporanea e il tipo di comunità che si costruisce dentro e attorno ad una narrazione seriale.
A pochi minuti dall’inizio del primo episodio, intitolato “Journey Into Night”, inizia il lungo flashback che caratterizza la parabola narrativa principale dei successivi nove, fino al finale in cui, almeno in parte, il tempo del discorso e il tempo della storia si riallineano. Nella prima stagione il gioco sul tempo si incarna principalmente in William che, con il trascorrere degli episodi, da anziano “regredisce” verso gli anni giovanili in cui ha preso avvio la sua ricorsiva ricerca del segreto custodito nel parco. Nella seconda stagione è Bernard, l’assistente del creatore dell’intero Westworld, il dottor Robert Ford, che lo ha plasmato a partire della mente del suo amico e partner, prematuramente scomparso, Arnold Weber, a ricordare con difficoltà la serie di eventi che lo hanno condotto su una spiaggia, privo di coscienza, tra i cadaveri degli host. Bernard è consapevole del suo status di androide – prima di morire Ford gli ha svelato la sua origine e lo ha “liberato” dai falsi ricordi che ne offuscavano la coscienza – ma al contempo è affetto da tremolii, difficoltà motorie e vuoti di memoria che lo rendono un testimone inattendibile della catastrofe che si è consumata nel parco.
Ecco dunque affiorare un’importante distinzione tra le due stagioni. Nella prima il tempo degli host è governato dal loop, ovvero dalla reiterazione programmata della propria storyline, nella seconda sono i glitch – termine tecnico che in informatica indica un errore non previsto del software che può essere adoperato per penetrare all’interno del codice e modificarlo – a indurre degli scarti sempre più ampi all’interno della prevedibilità comportamentale degli androidi. Di questi glitch gli host, da Dolores a Maeve fino a Bernard, sono sempre più coscienti, tanto da sfruttarli a proprio vantaggio. D’altra parte anche la scrittura seriale adopera questi personaggi per frammentare il tempo e la narrazione, chiedendo allo spettatore uno sforzo interpretativo per districarsi tra passato e presente, tra ricordi e falsi raccordi. I ritornelli prodotti dal pianoforte meccanico posto nel Mariposa Saloon che accoglie i visitatori è all’origine dell’intero loop narrativo su cui si basa l’esperienza del parco e la quotidianità dei suoi abitanti. Invece, l’incapacità di adattarsi alla ripetizione, il suo incancrenirsi nella memoria, è il sintomo del malfunzionamento degli androidi.
Quando James Delos, il fondatore della Delos, la corporation proprietaria di Westworld e degli altri parchi a tema, decide di trasferire la sua mente nel corpo di un host creato a sua immagine e somiglianza paga l’immortalità con la consapevolezza di non poter sfuggire alla ripetizione. Ogni mattina il giradischi si accende e la musica si diffonde nel bunker dove il magnate passa il suo eterno periodo di riabilitazione, fino alla follia. Ma la ripetizione è altresì necessaria per permettere agli host di sfuggire ai loop nei quali sono stati imprigionati. La ripetizione si tramuta così in principio costruttivo e salvifico. Ad esempio, è solo ricordando di aver compiuto innumerevoli volte lo stesso incontro con Teddy che Dolores introdurrà lo scarto necessario per disfarsi della routine.
È dalla reiterazione che emerge la variazione: la differenza si origina da un ripiegamento della ripetizione. Da Freud a Benjamin fino a Gilles Deleuze, è sotto il segno della ripetizione che si scatenano le potenze della differenza. La serialità contemporanea non fa altro che generare scarti e arborescenze a partire da un nucleo narrativo che ad ogni puntata viene richiamato e rilanciato. La messa in serie è una forma della ripetizione che riflessivamente espone le aderenze e gli scarti rispetto a se stessa, coinvolgendo lo spettatore nell’espansione trans- e inter-mediale del racconto.
A partire dal sesto episodio, “Phase Space”, i recap che aprono la seconda stagione perdono la loro funzione riassuntiva e si riconfigurano in sequenze organizzate secondo il principio degli scarti differenziali. Un montaggio di brevi clip intervallate dal nero, che mimano la difficile riemersione del passato, e il ritmo sincopato e ripetitivo della colonna sonora costringono lo spettatore a ricordare e a riallineare la sua competenza narrativa secondo un modello che riprende la struttura dei glitch che affliggono Bernard.
Quest’ultimo, a causa dei suoi malfunzionamenti, regge in modo imperfetto gli ingranaggi della storia e fa vacillare la fiducia riposta dagli spettatori sull’attendibilità dei suoi ricordi che al contempo sono indispensabili per dipanare la matassa di eventi che hanno condotto alla distruzione del parco. Emerge così quel paradosso ermeneutico a cui si è già fatto cenno e che Nolan e Joy risolvono solo nell’epilogo, trasformando l’attesa per il finale in un elemento di riflessività funzionale teso a sollecitare la ricerca della verità. È Bernad che “trucca” la storia, danneggiando il suo stesso software in modo da rendere fallaci le sue capacità menestiche, al fine di non essere scoperto. Questo stratagemma gli permette inoltre di rigenerare Dolores e trasferire la sua coscienza nel corpo del suo nemico (quello di Charlotte, direttore esecutivo della Delos), garantendole una via di fuga dal parco.
Dopo aver distrutto La Culla, che custodisce il backup delle menti di tutti gli host e ne garantisce il ripristino in caso di danneggiamento, e La Forgia, dove la Delos ha archiviato illegalmente tutte le esperienze dei guest al fine di mappare il comportamento umano e riprodurlo all’interno di una nuova generazione di androidi, le forme di vita che compongono la comunità di Westworld si battono per il ricominciamento. Alla distruzione degli spazi in cui la memoria e la sensibilità sono predeterminate dalle protesi tecnologiche fa seguito l’apertura di un orizzonte, forse illusorio, e il superamento di una frontiera, ancora invisibile, oltre i quali lo spettacolo audiovisivo americano, in pieno stile western, ha predisposto una nuova epopea da affrontare e una nuova realtà da conquistare.
Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina, Milano 1997.
J. Mittell, Complex tv. Teoria e tecnica dello storytelling delle serie tv, a cura di F. Guarnaccia e L. Barra, Minimum Fax, Roma 2017.
M. Montanelli, Il principio ripetizione. Studio su Walter Benjamin, Mimesis, Milano 2017.