C’è una cosa che colpisce ogni volta che si parla America, il fatto che la si racconti sia come continuo nuovo “inizio” che nella perennità del suo “tramonto”. Ma questa polarità è solo apparentemente contraddittoria, di fatto il racconto di un tramonto è una precondizione per poter raccontare i “nuovi inizi”. Non c’è inizio che non porti con sé la fine di qualcosa. E viceversa, non c’è fine che non presupponga nuovi inizi. Altrimenti staremmo nel distopico. Questo andamento ciclico che pone l’America sempre vicino agli estremi non è altro che il ciclo della vita. Non di una vita che semplicemente si vive, ma una vita in cui ci “si sente vivi” (quindi anche con la possibilità di “sentirsi morti”), perché è segnata da sempre nuovi inizi e da nuove necessarie fini.

Il nuovo inizio in America è stato sempre individuato da una traiettoria: quella verso l’Ovest. Sottratta alla linea del tempo e della storia, l’America è stata in primo luogo una geografia. Verso l’Ovest dei coloni che abbandonavano l’Europa inseguendo il sogno americano di reinventarsi la vita al di là dell’oceano. E verso l’Ovest della wilderness che ha incarnato il sogno degli americani oramai indipendenti, con un territorio sterminato da scoprire: pionieri più che conquistatori. Il movimento verso una frontiera che è stata sempre frontiera mobile: frontier non border; che più che identificare un confine ha determinato il movimento costante del suo superamento, un divenire sempre al di là della civiltà.

West di Francesco Jodice, attraverso una serie di fotografie che colpiscono con forza per le idee che le animano, racconta la perennità di questo mito e la sua presenza fino all’oggi. Nel corso di tre recenti viaggi (nel 2014, 2017 e 2022) compiuti nel West degli Stati Uniti, Jodice fotografa luoghi, contesti, situazioni, che raccontano quella che definisce una sorta di parabola dell’impero americano, da metà Ottocento ad oggi: «WEST rievoca l’ascesa e il declino dell’ultimo grande impero d’Occidente in un arco di tempo compreso tra l’inizio della Gold Rush (1848) e il fallimento della Lehman Brothers (2008)» (2023, p. 21). Ciò che viene fotografata è soprattutto la trasposizione immaginaria del mito del West, in cui l’oro diventa l’originario ed ambivalente contrassegno di una sacralità divina che si fa perdizione.

Le prime due foto della sezione che apre il libro, “Dalla Gold Rush alla Lehman Brothers”, ci mostrano la prima una pepita d’oro, la seconda, posta di fronte, l’immagine dei grafici del crollo della Lehman in borsa. Entrambe sono precedute da un’immagine con una scritta al neon verde, “We buy gold”.  E poi, a seguire, tracce e resti di questa parabola americana, residui industriali, miniere abbandonate nel deserto, cercatori improvvisati d’oggi sulle spiagge californiane. Ma il denaro per l’America ha significato qualcosa che è andata oltre la mera “rapacità” (messa in immagine in forma impareggiabile da Greed di Von Stroheim) e la connotazione esclusivamente morale di questa pulsione di arricchimento.

L’oro è il simbolo della ricchezza e dell’abbondanza di una terra nata per compensare la “scarsità” di ricchezze dell’Europa. Questa abbondanza di ricchezze naturali ed economiche della Land of Plenty, della Land of Promise, è inseparabile dalle possibilità stesse della democrazia: «Democracy is clearly most appropriate for countries which enjoy an economic surplus […] economic abundance is conducive to political democracy» (Potter 1954, p. 112). E già nel Seicento, l’America come terra dell’oro era presente in tutto un immaginario europeo, come si legge nella commedia inglese Eastward Ho, in cui uno dei personaggi parla della Virginia come di una terra dove «gold is more plentiful there than copper is with us» (cit. in ivi, p. 78).

Al centro del libro di Jodice, dove la fotografia si intreccia con la parola, sia dell’autore che di altri (diverse citazioni, ma anche tre conversazioni con Mario Calabresi, Francesco Costa e Matteo Balduzzi), c’è la trasformazione dell’America in un deposito di stratificazioni immaginarie che hanno colonizzato il mondo intero: «WEST non è un progetto sulla storia americana, quanto piuttosto sullo sterminato immaginario che questa ha generato e diffuso in modo pervasivo grazie a una koinè iconografica universale» (2023, p. 97).

Ora, questa iconografia universale che ha pervaso l’intero globo, è stata indicativa anche di uno stile di vita, entrato in quel processo che Bernard Stiegler ha chiamato l’“adozione” diffusa dell’America da parte del mondo intero (e viceversa), attraverso il cinema, le immagini, le narrazioni. Questa adozione ha trovato nell’immaginario la seducente superficie attrattiva, e di questo immaginario WEST è un bel condensato riflessivo, tant’è che «tutte le fotografie di Francesco Jodice sono immagini di altre immagini», dice Francesco Zanot nell’introduzione al volume (ivi, p. 11).

E questo è vero: l’America tutta è la forma iconica di un processo di riconoscimento. Non vediamo nulla che non sia confermativo del già visto: come mostrano le foto del John Ford’s Point nella Monument Valley, che mostrano la perenne messa in scena di un film, con il cowboy che torna quotidianamente sullo sperone di roccia ad uso di fotografi e turisti. Ma forse tutto questo non è sufficiente a spiegare la perennità di un mito, del più importante mito moderno. Dietro la pervasiva dimensione immaginaria e la fondativa dimensione simbolica, sintetizzata dalla libertà e dalla democrazia come parole d’ordine dei Padri Fondatori durante la Guerra d’indipendenza, ciò che resta e continua ad insistere oggi dell’America è il reale che abita il suo cuore desertico – anche in senso metaforico – e cioè la wilderness.

Quel rapporto originario con un al di fuori della civiltà è ciò che l’America continua a mostrarci, anche come ciò che è capace di dare forza alla civiltà stessa, mettendola in condizione di rinnovarsi (anche quando questo “fuori” prende le forme della violenza e della morte). Una sorta di fuori-interno alla civiltà stessa, senza il quale quest’ultima diventa forma vuota. Non dunque un rapporto con la wilderness risolto una volta per tutte, ma qualcosa che permane e dà linfa alla vita. La wilderness rappresenta una sorta di spinta anti-sociale e individualizzante (pensiamo ai boschi nel Walden di Thoreau), che garantisce però la forza e l’efficacia anche delle forme della democrazia: «American democracy was born of no theorist’s dream […]. It came out of the American forest» (Turner 2010, p. 293).

Allora ciò che l’America e il West, cioè il sogno americano, mostrano, e che continua a segnarci, non è tanto il destino di un impero (cioè la proiezione di uno sguardo morale europeo su un altro continente), quanto una cosa più radicale, e al fondo nascosta sotto immaginario e simbolico. Quella cosa che ci spinge a parlarne di continuo: il sentimento che lì in quella immensa geografia, in quella wilderness sconfinata, abbiamo visto da vicino (tanto da essere testimoniato dalla fotografia stessa, la cui nascita è di fatto coeva al Go West!) e continuiamo a vedere la nascita e rinascita reale di una civiltà e il suo misurarsi con un “fuori” intrattabile, incivilizzabile, che ne costituisce il limite ma anche il punto continuo di ripartenza.

Per questo, in una delle sezioni più belle del libro, “Geologie”, mediata dal Baudrillard di America, e del suo Desert forever, la geografia si fa geologia e quest’ultima deserto. Qui l’immaginario sembra arretrare, resta il paesaggio-limite dei deserti, della Death Valley e soprattutto di una Monument Valley fotografata ora senza fantasmi cinematografici, senza cowboy fordiani.

Pionieri, conquistatori, trapper, geografie e paesaggi sterminati, ma anche scrittori, fotografi, cineasti, questo immaginario del West nasconde al fondo un reale più radicale con cui la vita non può non misurarsi. È quel “fuori”, quell’“altrove” perennemente inseguito che fa della vita un’avventura, una spinta ad oltrepassare una frontiera che non porta da nessuna parte se non ad affermare la necessità continua del suo superamento. Un’avventura non esente da rischi, da violenze, da morti. Ma un’avventura necessaria, senza cui la vita diventa stagnazione. Avventura di un individuo, di un gruppo, di una comunità allargata, dell’umanità europea o dell’umanità tutta, come pensava il Paine di Common Sense: «The cause of America is in a great measure the cause of all mankind».

L’America è tutto questo allo stesso tempo: sogno e incubo, wilderness e civiltà, libertà e schiavitù, passato e futuro, forze e forme, vita e morte. Perché, se è vero come diceva John Locke, che «in the beginning all the world was America», è anche vero che ogni volta che il mondo “rinasce”, da qualsiasi parte questo accada, è sempre un Nuovo Mondo, quindi un’America.

E questo lo vediamo in ogni fotografia del libro di Francesco Jodice, dove l’America rinasce nello “stupore” e nella “meraviglia” che animano lo sguardo del fotografo: «Il viaggio è meraviglia. Il motivo per cui viaggiamo, oltre al desiderio di conoscenza, è il bisogno di andare incontro allo stupore» (Jodice 2023, p. 160).

Quell’America il cui declino il libro vorrebbe raccontare si trasforma di fatto in una fonte d’ispirazione e di creazione per lo sguardo di Jodice, capace di dare nuova vita a ciò che guarda. Anche quando ciò che inquadra è l’ultima frontiera, quella del Pacifico, dove restano solo i surfisti che provano invano ad andare oltre, come nelle due belle foto che chiudono il libro. Ma sappiamo bene tutti, e vediamo in quelle immagini, che il senso della vita risiede semplicemente, come per i surfisti, nel cavalcare l’onda.

Riferimenti bibliografici
D.M. Potter, People of Plenty. Economic Abundance and the American Character, The University of Chicago Press, Chicago 1953.
B. Stiegler, Le technique et le temps. Vol. 3. Le temps du cinéma et la question du mal-etre, Galilée, Paris 2001.
F.J. Turner, The Frontier in American History, Dover Edition, New York 2010.

Francesco Jodice, WEST, a cura di F. Zanot, Electa, Milano 2023.

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