Che cosa costituisca verità o, in forma molto più semplice,
che cosa costituisca realtà è per me un
grosso enigma, maggiore ora di un tempo.

Werner Herzog

Come interrogare nuovamente il cinema di Werner Herzog nell’era della platform society e delle immagini computazionali? Dando per scontata la riflessione meramente autoriale che da oltre quarant’anni ha prodotto validissimi studi su forme e temi ricorrenti del grande regista tedesco; e ancora, andando oltre la riflessione sul decisivo superamento dello steccato culturale tra cinema documentario e cinema di finzione che ha eletto film come Fata Morgana (1971) o L’ignoto spazio profondo (2005) a oggetti teorici imprescindibili; come far parlare ancora una filmografia smisurata che continua a mettere al centro il problema dell’immagine del mondo tra tensioni archeologiche ed esplorative?

L’ultimo libro di Daniele Dottorini, Werner Herzog. L’anacronismo delle immagini, vuole innanzitutto rifunzionalizzare tali istanze proponendo una lettura del cinema di Herzog «come grande territorio in cui si agitano questioni, temi e problemi che riguardano l’immagine contemporanea, che ne interrogano il senso e le possibilità». E per far questo lo studioso intavola un dialogo serrato (e per lunghi tratti inedito) tra il corpus di opere herzoghiane e alcuni concetti chiave della teoria dell’immagine di Aby Warburg. L’intento è quello di ragionare sulla capacità del cinema di creare immagini contemporanee a partire dalla loro temporalità, quindi di riflettere sulle possibili forme di un cinema dell’anacronismo nel XXI secolo.

Piccola parentesi. Leggendo l’illuminante saggio di Dottorini – che parte proprio da una libera combinazione di idee nata all’interno della British Library di Londra – mi è tornato in mente un episodio vissuto nel 2019 durante il Festival di Cannes. Werner Herzog è in sala ad assistere alla prima mondiale del suo film Family Romance, LLC (2019). Una sorta di film-saggio che estende in nuovi territori geografici (la Tokyo contemporanea) e mediali (i piccoli device portatili in mano ai personaggi sono gli stessi utilizzati per la realizzazione del film) quella costante ricerca di immagini necessarie colte oltre ogni simulacro virale della nostra epoca. Un film sul «potere salvifico della finzione», come scrive Dottorini, con (non) attori che diventano testimoni di una verità sentimentale da cogliere negli scarti tra vita e messa-in-scena. E allora, terminata la proiezione cannense, il regista tedesco si incammina all’uscita insieme agli spettatori intrattenendosi in particolare con un ragazzo giapponese: «Vorrei sapere quali riflessioni le hanno suscitato queste immagini, vorrei che mi raccontasse le sue emozioni» dice con sguardo fanciullo e interessato. Insomma, a Herzog non interessa minimamente il cerimoniale di un Festival che lo legittima per l’ennesima volta come un grande autore ma è solo interessato a prolungare l’atto del suo filmare nel mondo che ci circonda.

Ecco, il libro di Dottorini pone alla filmografia herzoghiana una simile domanda: non rielabora interpretazioni storicizzate su un percorso artistico ormai cinquantennale e non si sofferma sull’analisi di singoli film o marche enunciative ricorrenti, bensì tenta di riattraversare quelle forme per favorire un pensiero critico contemporaneo a partire dall’esperienza odierna delle immagini. Del resto, Werner Herzog ha sempre prediletto un atteggiamento estetico che fosse frutto di una pratica, una sorta di «atletismo cinematografico», come lo chiama Dottorini, che rendesse mutevole il suo statuto autoriale e inafferrabile il suo immaginario di riferimento. Ed è in questo senso che le ricerche pionieristiche e i concetti eretici di Warburg, ripensati oggi attraverso la pratica herzoghiana, consentono a Dottorini di interrogare il cinema contemporaneo a partire dalla sua capacità di essere cinema dell’anacronismo.

Concetti quali orientamento, polarità, sopravvivenza, intervallo, innervano da sempre le immagini di Herzog rendendole capaci di connettere temporalità diverse e quindi di aprire nuovi spazi di riflessione sulla contemporaneità (da qui il discorso sul montaggio come «raccordo creativo e inventivo di intervalli non visibili» che parta sempre dal rapporto tra soggetto e mondo). E ancora gesti ricorrenti come camminare, danzare, volare diventano essi stessi delle forme espressive mediatrici di passioni (straordinaria la riflessione sul camminare come immagine metaforica di una forma di montaggio, quindi di costruzione di uno sguardo sempre in divenire).

Insomma, Dottorini ci propone un nuovo “atlante” di immagini herzoghiane aperte a molteplici temporalità e libere connessioni – dalla pittura rinascimentale a quella romantica, dal cinema di Murnau a quello di Vertov, arrivando a Kiarostami, Tarr, Serra, ecc. – presupponendoci come lettori/spettatori attivi, capaci a nostra volta di pensare il cinema come costante campo di esplorazione e reinterpretazione. Questo è un libro prezioso perché instaura un rapporto dinamico e critico con i testi audiovisivi ridiscutendo virtuosamente le pratiche algoritmiche del nostro panorama mediale – sempre più costruite intorno a profilazioni e prompt personalizzati – per spronarci a formulare domande o connessioni inattese. L’obiettivo resta quello di aggiornare la ricerca di quel surplus di senso nelle immagini che il cinema si è arrogato il compito di svelare nell’era delle macchine e che Werner Herzog ha sempre inseguito come verità estatica.

Daniele Dottorini, Werner Herzog. L’anacronismo delle immagini, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza 2022.

Share