Welcome Home (Jonze, 2018).

Il talento creativo di Spike Jonze non si alimenta solo di cinema (Essere John Malkovich, 1999; Il ladro di orchidee, 2002; Nel paese delle creature selvagge, 2009; Lei, 2013), ma anche e soprattutto della libertà linguistica e dell’innovazione sperimentale concesse dai formati brevi. Dal 1992 Jonze ha firmato la regia di una sessantina di videoclip musicali, tra gli altri per Sonic Youth, Beastie Boys, Björk, Daft Punk, Chemical Brothers, Fatboy Slim, R.E.M e di  una manciata di spot pubblicitari per aziende come Nike, Levi’s, Ikea, Adidas, GAP, Nissan, fino al commercial per l’essenza “Kenzo World” che nel 2016 ha riacceso i riflettori su Jonze a tre anni dal successo di Lei. Il pubblico (soprattutto del web, ad oggi sono quasi 13 milioni le visualizzazioni del video sul canale YouTube ufficiale della casa di moda Kenzo, ma quando uscì ne fece 2 milioni in pochissimo tempo) osannò quello spot come una ventata d’aria fresca nel mondo della pubblicità.

La giovane attrice Margaret Qualley interpretava una contemporanea Alice che, annoiata e depressa, si allontana dalla sala in cui si sta svolgendo una serata di gala, raggiunge la hall deserta e si scatena in una danza ribelle e viscerale trascinata dal ritmo forsennato di un brano musicale – non a caso intitolato Mutant Brain – composto dal fratello di Jonze, Sam Spiegel. Fasciata in un elegante abito color verde foresta, la donna dà letteralmente corpo alla musica: viene posseduta dal ritmo incalzante e sincopato del brano, a cui si sincronizza fisicamente con una sequenza di smorfie facciali e spasmi corporei. Passando di fronte a una serie di ampi specchi gioca con la propria immagine riflessa; interagisce in modo dissacrante con un busto di metallo – simbolo maschile del potere e dell’istituzione a cui si ribella –; sale la scalinata sgranando con furia i gradini; abbatte a pugni (ma senza toccarlo) un uomo (di colore) in smoking; distrugge pareti e suppellettili a colpi di laser che scaturiscono dalle sue mani; cerca invano di controllare con un braccio il delirio dell’altro arto in preda alla musica; approda sul palco del teatro reinterpretando impetuosamente alcuni passi di danza classica; si ritrova all’esterno dell’edificio, dove vola letteralmente in un gigantesco occhio – simbolo della maison – fatto di fiori. La follia liberatoria di un corpo-suono incarna, rende visibile e celebra l’essenza della rivincita femminile sul potere, o più semplicemente sulla monotonia delle imposizioni della vita quotidiana.

Anche nel recente spot pubblicitario dell’HomePod, nuovo dispositivo smart di riproduzione musicale della Apple, Jonze sceglie una protagonista femminile (è la cantautrice, musicista e ballerina britannica FKA twigs, alias di Tahliah Debrett Barnett), anch’ella giovane e frustrata da un’esistenza routinaria, monotona e scolorita. Dopo una dura giornata di lavoro, un viaggio nell’affollata metropolitana, un ultimo tratto a piedi sotto la pioggia e infine in un affollato ascensore, testa china e occhi semichiusi per la stanchezza, la ragazza rientra nel proprio appartamento e chiede a Siri un brano che le piaccia. Siri obbedisce prontamente e diffonde ‘Til It’s Over, nuovo singolo di Anderson .Paak.

La ragazza si accomoda sul divano con un bicchiere d’acqua ghiacciata e cerca di rilassarsi dondolando verso destra e sinistra a ritmo di musica. D’improvviso il tavolino su cui ha appoggiato il bicchiere, che tiene ancora in mano, si allunga da un lato portandosi dietro anche il braccio della donna, come se una prolunga, da sola, si fosse aperta. Stupita, compie un movimento ancora più largo con il braccio, ottenendo un ulteriore prolungamento del tavolo. Si alza e con le mani invita il tavolino a raggiungerla, e così il tavolo e la rivista posata su di esso si allungano deformandosi linearmente. Tutta la casa – i mobili e le pareti – comincia a rispondere ai comandi corporei della ragazza, allungandosi nella direzione indicata dai movimenti, pur senza alcun contatto diretto.

La sezione di una parete comincia a rientrare in sé stessa, fino ad aprire un varco che si estende in profondità formando un corridoio in cui la ragazza prosegue la sua danza; si imbatte in uno specchio, da cui si origina un dialogo di riflessi (proprio come nello spot di Kenzo) ma poi di sdoppiamento, quando la sua immagine diviene un altro corpo e il ballo solitario diviene una ballo di coppia – un ballo di doppi. Il gioco di identità e alterità termina dopo un ultimo sfondamento della parete, in un’ampia sala scura che riporta la donna sul divano, dove si risveglia dall’illusione, nel suo appartamento ora tornato nella norma del suo spazio ordinario.

La trasformazione del set è realizzata non grazie al computer, bensì a un’ingegnosa opera artigianale e meccanica di incastri e scorrimenti attivati da un sistema di leve nascoste (come mostra il video del making-of diffuso da Ad Week). Paradossalmente però l’effetto estetico è quello di una modificazione digitale dello spazio. L’allungamento delle superfici infatti si realizza trasformando i punti da cui si origina l’estensione in linee. Ogni linea è la “moltiplicazione” del medesimo punto e non lo “stretching” elastico degli oggetti. Si ha così l’impressione che la modificazione dell’ambiente non sia una deformazione fisica, bensì una riproduzione virtuale, come pixel puntuali che si linearizzano iterando sé stessi.

Tali estensioni virtuali avvengono a partire da sezioni degli ambienti cromaticamente sature e accese (poster sulle pareti, tessuti colorati, ecc.), con l’effetto di creare coloratissimi pattern in netto contrasto espressivo con la fotografia cupa dell’incipit, dove dominavano invece i colori bruni e grigi della triste e routinaria realtà. Le pareti e il soffitto del corridoio immaginario che si apre nella parte centrale dello spot sono costituiti da lunghi “nastri” colorati che vibrano al pulsare della musica. Qui la bidimensionalità digitale lascia spazio a una plasticità quasi tessile, e non a caso si scorgono rimandi iconografici al mondo della moda: agli intarsi di Missoni o, ancora di più, le fantasie a righe sottili e colorate di Paul Smith. Una gamma sgargiante e ordinata di linee prospettiche si dispone a raggiera attorno al corpo della donna, quasi un’opera di astrattismo geometrico o di optical art. Durante l’illusione, il tempo e lo spazio della realtà vengono sostituti dallo spazio-tempo sospesi – ovvero estesi – dell’illusione: allora viene in mente anche il tesseratto di Interstellar (Nolan, 2014), in cui alle tre dimensioni dello spazio si aggiunge quella del tempo i cui infiniti istanti sono rappresentati visivamente da fitte linee longitudinali e ortogonali.

L’aspetto più interessante di Welcome Home resta tuttavia il rapporto fra attività motoria (che nell’illusione o nel sogno materializza ed estende l’attività cognitiva inconscia) e la concordante modificazione dell’ambiente fisico, una deformazione armonica, bidimensionale e tridimensionale, della materia. Come in Kenzo World, il corpo e la musica sono sincronizzati, ma qui c’è qualcosa di più: i movimenti e i gesti dell’agente hanno infatti un effetto trasformativo dello spazio; anche lo spazio dunque risulta sincronizzato al corpo e alla musica. È come se, per mediazione della musica, la casa fosse il corpo della ragazza, o quantomeno un suo prolungamento, una proiezione ortogonale, un’estensione fisica e mentale. Si tratta del resto di una esteriorizzazione metaforica: grazie alla musica diffusa dall’HomePod la casa diviene luogo immaginario e illusivo, di cui le coordinate spaziali sono plasmate dinamicamente dalle necessità del corpo e della mente di farsi trasportare in un luogo e un tempo il più possibile lontani dalle preoccupazioni quotidiane, espandendo nell’immaginazione il proprio universo sensibile. Una domotica audiovisiva.

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