Un pontile si incunea nella platea sventrata del Teatro San Ferdinando a Napoli. In fondo una specie di altarino innalzato con un drappo dove si indovina una sacra figura sbiadita con i ceri accesi innanzi. Dall’altro lato scende oscillando una enorme sfera plumbea, pronta a squarciarsi e a far trapelare il tunnel d’ingresso di una cava di tufo. È il segno di un percorso spaziale che enuclea la vertigine di un vuoto primigenio, laddove le acque e le terre si amalgamano nel fango melmoso, putrido e fertile, germinante una origine vitale. È l’impianto scenico potente di La Cupa, il nuovo lavoro di Mimmo Borrelli per il Teatro Stabile di Napoli.
Un fluviale spettacolo diviso in due “giornate”, ma fruibile idealmente come un unico “continuum” in cui il poema teatrale si sposa con il rito sanguigno, la festa crudele da un lato e con le cadenze romanzesche e tragiche di una sorta di saga popolare. È il popolo flegreo, cioè la genealogia familiare e collettiva delle genti che abitano i “Campi Ardenti” tra Baia, Pozzuoli, Torregaveta, Bacoli, l’infernale Lago d’Averno. Quei Campi Flegrei alle porte di Napoli dove già nelle viscere della terra vaticinava la virgiliana Sibilla di Cuma, presiedendo a una nekuia, la discesa nel ventre terracqueo tra soffi di fuoco sotterranei lungo cui si inoltra Enea.
Quel territorio comunitario intriso di succhi densi e di getti violenti di umano, animale e divino e che fa emergere tra i “lavoratori del mare”, gli scavatori del tufo, la genìa popolare di ataviche “fratrie”, tra i “lavoratori della terra”, cavatori del giallo e poroso materiale tufaceo, tutto un magma terrigno e incandescente di gesti, corpi, movenze e soprattutto “versetti” di una lingua di blasfemie, turpiloqui, sacri e apotropaici appellativi, musicalità ululate o cadenzate, gutturali o stridenti, immerse nel dialetto flegreo che pare incarnare sonoramente e visivamente tutto un corpus di retaggi ancestrali. È il mondo di Borrelli fin dalla “trinità dell’Acqua”, tutta maternale (Nzularchia, 2003; ‘A Sciaveca, 2006; La Madre: ìi figlie so’ piezze ‘i sfaccimma, 2010) dove assistiamo al formarsi e al manifestarsi drammaturgico, rituale, musicale di un “teatro degli elementi”, e delle forme di vita, delle “apprensioni” arcaiche e insieme immediatamente attuali di un intero popolo, della sua anima profonda, del suo svolgersi secolare lungo le latebre del tempo e dello spazio.
Questo La Cupa inaugura una trilogia della Terra nella forma frammentaria e fluida di una saga familiare (intorno al crisma della paternità) in cui colpe, agnizioni, assolvimenti, delitti, suicidi, grazie, crolli, sfruttamenti, deliqui, fratricidi si intersecano lungo la linea del vuoto e lungo l’arco di una cosmogonia, come una Bibbia del popolo, come la psicomachia di una religione atavica, lo scavo di un tempo-paesaggio millenario e perdurante. Dove vendette, retaggi tragici, commercio di organi, pulsioni di pedofilia e sfregio dell’umano, viaggi nelle tempeste tra terra e mare riportano alla mente tanto il teatro di Viviani, quanto il fabulare crudele di Basile, e provengono direttamente dall’impianto tragico (Eschilo), dal verso teatrale e dall’intrico shakespeariano, dalle peripezie iniziatiche del romanzo antico (Eliodoro, Apuleio, Petronio), dalla fluidità corrusca e materica del romanzesco moderno (Hugo, Zola, Verga), dai poemi rituali del sostrato orientale indoeuropeo. Un mondo “altrove”, un globo (oculare e oscuramente infuocato), una cosmogonia comunitaria e primigenia: “Dunque anche pensando ad un altro mondo, ad una cosmogonia, una comunità, si è preferito virare e percorrere le dinamiche di tutte le comunità primordiali e orientali del mondo” scrive Mimmo Borrelli, nel programma di sala.
Gli stessi appellativi dei corpi-persone-abitanti dello spazio e degli esseri antropomorfici dai tratti animali che come “guide ctonie” accompagnano le azioni, riportano a risorgenze di semi-divivintà, di mostri o prodigi, di incarnazioni di uno “spirito del luogo”, di allegorie viventi: Giosafatte ‘Nzamamorte (il padre primitivo diventato fratello e poi trasformato in albero, in una metamorfosi ovidiana e dantesca accordata alle sopravvivenze delle antiche feste arboree del Sud), Tummasino Scippasalute (genialità maligna, sulfureo nemico, demonico spirito aleggiante), Maria delle Papere e Ciaccone, esseri umano-animali, in cui il grugnito e la movenza del maiale e lo stridio e lo zampettare dell’oca diventano “passi magici”, danze cerimoniali ed evocative, ombre fosforescenti che accompagnano i labirintici percorsi destinali dei personaggi.
Una straordinaria compagine attoriale compone e scompone gli episodi, i frammenti eruttati come lapilli dallo spazio scenico, intorno al corpo-voce possente e mitologico di un Titano-Attore-Poeta come Borrelli (che pare la scultura dell’Atlante di Capodimonte quando porta sulle spalle il gigantesco globo, che è insieme pianeta, luna, terra, nucleo incandescente metallizzato, alchemica ampolla), e si fanno coralità di una città-territorio porosi, come diceva Benjamin a proposito della tufacea Napoli. Si tratta di quel nesso vuoto-abitare messo in luce da Pierandrea Amato in un libro collettivo che estrae le “posizioni filosofiche” di Napoli:
La materializzazione del vuoto è la chance della dismissione. È la voragine del frammento post-industriale, quello abbandonato e improduttivo, il solco in cui tracciare un’indefinita spazialità al tramonto dell’epoca dello spazio […]. La retorica urbana del vuoto che derubrica a luogo insicuro e malfamato va capovolta a favore del suo carattere fecondo. […] La gestualità urbana del vuoto a Napoli, rimane inesplorata. L’incontro con l’origine dello spazio è stato eluso. […] Il frammento è la singolarità dell’abitare. […] La frammentazione è l’aver luogo di Napoli come fedeltà a forme di vita tese a rifiutarne i privilegi spaziali canonizzati.
Appunto uno svuotamento, un capovolgimento, una tellurica cavità scavata in uno spazio che va ribaltato entro un paesaggio di residui e resistenze culturali non consumabili dall’omologazione urbana e antropologica, che va sventrato, aperto, esposto, mostrato senza pudore, ma con una miracolosa pietas antica da Borrelli, che sottrae e preserva questo “oro filosofico” tratto dalla visita alle interiora della Terra, dallo sterminio del senso che si sta perpetrando. Cupa infatti è indice di “svango” che scava e perlustra come uno svuotamento (e “Vanghi”, come uno scavare nel terreno secco e umido, sono chiamati la ventina di episodi di questa sorta di “seriale” teatrale, nel senso delle puntate “feullietonesche” del romanzo ottocentesco, da Dumas a Mastriani).
Cupa è l’eco di un rombo sonoro-luminoso, “cupo” appunto, che (come nelle cosmogonie esiodee e indiane o nella filosofia taoista) manifesta il farsi del mondo dal caos “cavo” al formarsi del mistero naturale, a partire dallo spalancarsi di un suono che è immediatamente luce e spazio, un vuoto che permette il movimento come il mozzo di una ruota, il rotare cosmico dei mondi. E nello spettacolo ciò è materizzato dalla luce opalescente (di Cesare Accetta) e dai canti e litanie e dalle sonorità protratte e cerimoniali, corali e monodiche e dal tappeto musicale che rimanda all’orchestra in scena dei “gamelan” indonesiani, eseguite e salmodiate (con le voci di Borrelli e dei suoi straordinari attori-musici) da Antonio della Ragione e dai suoi musicisti inseriti a vista nello spazio.
E si pensa a come l’impiantito della skenè nel teatro antico era costruito e aggettato su una cavità sottostante e risonante con anfore vuote e a come l’effetto-suono-mondo emergeva dalle voci ancestrali che fuoriuscivano dal cavo delle maschere, per cui tutti i corpi scenici erano strumenti da cui fluiva l’invisibile. «Posso scegliere uno spazio vuoto e decidere che è un palcoscenico vuoto: è sufficiente a dare inizio a un’azione teatrale» scriveva Peter Brook, e in La Cupa il vuoto risonante immerge lo spazio e l’azione ancestrale in un mondo “a parte”, lo lancia in un cosmo scenico unico e potente.
Riferimenti bibliografici
P. Amato, G. Borrelli, G. Di Marco, A. Martone, B. Moroncini, M. Zanardi, Aporie napoletane. Sei posizioni filosofiche, Cronopio, Napoli 2006.
W. Benjamin, Immagini di città, Einaudi, Torino 2007.
P. Brook, Lo spazio vuoto, Bulzoni, Roma 1998.