La posta in gioco, come sempre, è il corpo. Chi, e soprattutto che cosa, lo controlla e come, e in che modo (se ne esiste qualcuno), il corpo può sfuggire a questo controllo. È il tema sotteso dal libro di Federico Albano Leoni, Voce. Il corpo del linguaggio (Carocci 2022). Un’antica tradizione considera la voce solo come veicolo espressivo del linguaggio: per Aristotele la voce è infatti essenzialmente phoné semantiké, cioè «è significativa. In questa prospettiva il motore primo è il voler dire. Il processo della significazione ha luogo perché c’è qualcuno che vuole dire qualche cosa a qualcun altro e c’è qualcuno che vuole capire ciò che viene detto. […] Ma la voce non è solo questo, è molto di più» (Albano Leoni 2022, p. 9). La voce, infatti, è assolutamente individuale, è unica come il modo di camminare o la trama delle linee dei polpastrelli delle dita.

Se la voce viene presa in considerazione soltanto come mezzo espressivo si finisce per perdere proprio ciò che rende ogni corpo affatto singolare. In effetti una lingua funziona in base al principio che nello scambio comunicativo non ci sia nulla di individuale, ché altrimenti lo scambio non sarebbe possibile, dal momento che solo ciò che è radicalmente non-individuale, cioè intersoggettivo, può essere comunicato e compreso. Quindi la voce, che invece di suo è unica e senza modello (questo vuol dire essere qualcosa di singolare), deve farsi da parte perché la comunicazione sia possibile. Il linguaggio, in quanto relazione segnica intersoggettiva, può esistere solo perché la voce rinuncia ad essere ciò che è in quanto pura caratterista corporea, cioè voce non semantica, non significativa.

Si comprende perché, allora, la posta in gioco sia il corpo e il controllo del corpo. Attraverso il linguaggio, cioè attraverso l’intrinseca medietà comunicativa del linguaggio, la voce, e quindi il corpo, viene messo al servizio del dispositivo sociale. Di tutti quei dispositivi sociali di controllo che derivano dal linguaggio. In effetti se c’è un tratto assolutamente evidente del nostro tempo è l’assoluta centralità del linguaggio nelle nostre esistenze. Quando si legge «linguaggio» si pensa troppo velocemente alla comunicazione, ma non è in questo senso che va intesa questa onnipresenza del linguaggio. In realtà linguaggio vuol dire regolamenti, codici, divieti, autorizzazioni, manuali, tutto quell’enorme insieme (ogni giorno più esteso e ramificato) che controlla e disciplina in ogni suo aspetto le vite umane ma anche quelle non umane. Un insieme che non potrebbe esistere senza il linguaggio, e in particolare senza la scrittura.

Si pensi, al contrario, al caso di un animale non umano, ad esempio uno dei milioni di cinghiali che assediano, in questa estate post-umana, le nostre città. Un cinghiale non conosce regole né divieti, va dove trova del cibo, sia questo luogo un bosco di querce o una strada asfaltata. Una vita animale è propriamente animale proprio perché non ha nulla a che fare con la scrittura, e quindi con il linguaggio. Di conseguenza non esistono norme che regolino la vita animale e che la costringano, ope legis, a vivere in determinato modo. In questo senso l’animale è sostanzialmente libero anche quando è rinchiuso in una gabbia, perché anche in un caso come questo la sua è una prigionia dettata solo dalla violenza e dalla forza.

Solo gli esseri umani, al contrario, riconoscono l’autorità impersonale della legge. C’è un solo motivo per cui gli animali umani, dal momento che non smettono mai di essere appunto animali, trovano spontanea e naturale una prestazione altrimenti così straordinaria come quella di credere nell’esistenza delle norme: perché sono stati addestrati fin da piccoli all’uso della lingua, perché parlare una lingua non significa altro che aver rinunciato alla propria voce singolare.

In effetti «la voce nella sua materialità appartiene al mondo della natura» (ivi, p. 15), cioè appunto del corpo animale, non al corpo socializzato. Non ci sarebbe lingua se non ci fosse voce:«Il parlare dipende dall’udire» e, più in generale, «l’ascolto è […] coessenziale alla nostra biologia e al nostro cercare di rimanere in vita, ma il parlare non lo è» (ivi, p. 24). È la tesi fondamentale del libro di Albano Leoni, la secondarietà delle lingue e del linguaggio rispetto alla voce: «La voce è dunque la carne viva della lingua» (ivi, p. 57). Tuttavia, come abbiamo visto, questa stessa voce animale, se vuole comunicare con altre voci, non può non sottomettersi all’astrattezza e impersonalità della lingua. Ché una lingua, in fondo, non è altro che la negazione di ogni singolarità e incomunicabilità animale.

Da un lato c’è la carnalità della voce, dall’altro c’è la lingua come entità necessariamente disincarnata. Il contrasto fra queste due prospettive appare in tutta evidenza quando si pone il problema del rapporto della voce con la scrittura. La posizione di Albano Leoni è netta: «Fra [queste] due modalità sussistono differenze irriducibili» (ivi, p. 68), e non bisogna cadere nell’errore di pensare la voce a partire dalla sua rappresentazione attraverso la scrittura: «Dobbiamo davvero pensare che le lingue siano indifferentemente scritte o parlate? Direi di no, per un motivo molto semplice: per quanto ne sappiamo il parlare e l’ascoltare sono universali, mentre lo scrivere e il leggere non lo sono» (ivi, p. 54). Dal punto di vista della filogenesi della specie umana è una tesi assolutamente incontestabile, la scrittura è un fenomeno recente, che risale a poche migliaia di anni fa.

Albano Leoni non discute le tesi di Derrida sulla scrittura, eppure in quelle tesi c’è forse un modo per capire come sia stato possibile che l’animale della voce sia potuto diventare l’animale della lingua e della scrittura. E quindi della legge che infine assoggetta a sé i corpi. In Della Grammatologia Derrida osserva che la scrittura è molto più che «il significante del significante» (1967, p. 24) vocale. In realtà «significante del significante descrive al contrario il movimento del linguaggio. […] Il significato vi funziona già da sempre come un significante».

La voce, in quanto corpo e carne, è piena e materiale, è la voce di un corpo, polmoni, corde vocali, lingua, labbra. Un testo scritto, invece, non significa propriamente altro che un altro e ulteriore testo scritto, dal momento che per capire una parola dobbiamo leggerne un’altra, e così, indefinitamente. In questo senso «il significato» in realtà ha sempre funzionato «come un significante»: ma così, prosegue Derrida, «la secondarietà che si credeva di poter riservare alla scrittura affetta ogni significato in generale, già da sempre, cioè dall’inizio del gioco. Non si dà significante che sfugga […] al gioco dei rinvii significanti di cui è costituito il linguaggio» (Ibidem).

È vero, la voce precede la scrittura, ma è altrettanto vero che la logica della scrittura, cioè la logica del rimando significante, è indipendente dalla voce; per questa ragione, prosegue Derrida, «la scrittura non è mai stata un semplice supplemento» (ivi, p. 25) della voce. Da un punto di vista evoluzionistico la posizione di Derrida è insostenibile, e ha ragione Albano Leoni ad abbracciare la tesi continuista, secondo cui «il linguaggio umano è il risultato di un lunghissimo processo evolutivo dei viventi nel quale la comunicazione animale rappresenterebbe una fase arcaica ed embrionale, che poi è quella stessa che si osserva negli infanti» (ivi, p. 109).

Allo stesso tempo però il meccanismo della scrittura opera secondo un principio radicalmente diverso, non connesso a quello della voce, anzi a questo opposto. La voce è carne e corpo, la scrittura è un movimento differenziale sempre più disincarnato (si pensi, per non fare che un esempio scontato, alla logica digitale, elettromagnetico movimento di bits). Albano Leoni è consapevole di questo contrasto, e tuttavia insiste nel rimarcare la primarietà non solo temporale della voce:

Certo, quando lingua, società e istituzioni si consolidano è evidente che ciò implica processi importanti di generalizzazione, di astrazione induttiva, di costruzione di assiomi e teoremi nei quali la voce non è più necessariamente la protagonista assoluta, ma rimane tuttavia centrale nella nostra vita quotidiana, sia come uno dei noccioli, forse il più importante, dai quali tutto è cominciato, perché è certamente vero che senza lingua non c’è sapere organizzato e collettivo, ma è altrettanto vero che senza voce non c’è lingua, almeno per come sembra che siano andate le cose nella lunghissima storia evolutiva del genere umano (ivi, p. 118).

Il mondo contemporaneo è evidentemente un mondo della scrittura, e non della voce. Economia finanziaria e quindi digitale, scienza, informatica, telecomunicazioni, internet. È un mondo scritto (come bene mette in evidenza Maurizio Ferraris, e proprio a partire dalle ricerche di Derrida), non un mondo parlato, un mondo grafico, non vocale. Ma questo non toglie rilevanza al tema della voce, al contrario, se possibile lo rende ancora più urgente. In un breve paragrafo del suo libro Albano Leoni si occupa della questione del «Percepire la propria voce», come può capitare a chi conduca una trasmissione radiofonica, che è tenuto non solo ad ascoltare quello che dicono gli ospiti, ma anche e soprattutto la propria stessa voce. Secondo Albano Leoni questa particolare pratica «ci serve per controllare se stiamo parlando in modo corretto» (ivi, p. 23).

In realtà ascoltare la propria voce serve anche, e forse soprattutto, per prendere coscienza del fatto che ciascuno di noi è una voce particolare e inconfondibile. In questa esperienza così innaturale (e difficile da insegnare) accade il processo inverso rispetto a quello che trasforma la voce animale in phoné semantiké, cioè in voce significativa. In questo caso non conta tanto quello che si dice, quanto il fatto stesso che si stia dicendo qualcosa.

Se c’è un momento in cui la nostra indicibile singolarità appare in piena evidenza è proprio quando facciamo esperienza del puro factum loquendi. L’autoascolto permette di retrocedere dal significare – e quindi dall’essere nient’altro che un generico mezzo comunicativo, cioè un anello qualunque della catena significante – all’essere (e non all’avere) una voce, e quindi un corpo. In questo senso l’esperienza carnale della voce, però, non è affatto primaria, al contrario, è del tutto artificiale e tecnologica (nell’esempio radiofonico è impossibile senza cuffie e microfono).

Si comprende perché, allora, il tema della voce sia tornato così centrale nel tempo della scrittura generalizzata e quindi del controllo capillare sulle vite degli esseri umani. La voce, in fondo, non esiste come dato naturale e scontato, una voce che infatti è già da sempre sommersa dall’esigenza di dire ed essere ascoltati, cioè appunto dall’esigenza di farsi voce significante, e quindi di sparire come pure voce carnale. Invece la voce, la propria voce, è tutta da inventare. Si tratta, finalmente, di incarnare quella voce che non siamo mai stati.

Riferimenti bibliografici
J. Derrida, Della grammatologia, a cura di G. Dalmasso, S. Facioni, Jaca Book, Milano 2020.


Federico Albano Leoni, Voce. Il corpo del linguaggio, Carocci, Roma 2022.

*In apertura e in copertina un fotogramma di The Human Voice di Pedro Almodóvar (2020).

Tags     Derrida, linguaggio, voce
Share