Nell’ultima pagina di Vitam instituere. Genealogia dell’istituzione, nel definire i tratti propri di ciò che dall’origine greca ha preso il nome di “democrazia”, Roberto Esposito la definisce come il luogo in cui è possibile «una politica che renda la società consapevole del proprio carattere auto-istituente» (Esposito 2023, p. 141).
Credo che proprio a partire da quest’ultimo tornante del volume si comprenda l’intera operazione di scavo genealogico dell’istituzione che il filosofo napoletano sta compiendo da qualche anno attraverso alcuni intensi lavori – oltre a Vitam instituere, Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica (Esposito 2020) e Istituzione (Esposito 2021) – e, non per ultimo, anche attraverso il Seminario permanente di Filosofia e politica presso la Scuola Normale di Pisa diretto proprio da Esposito; seminario che ha nella pubblicazione presso l’editore Quodlibet dell’Almanacco di Filosofia e politica un suo momento determinante.
Se in Pensiero istituente l’operazione teorica di Esposito procedeva ex negativo, contrapponendo l’opzione istituente di Claude Lefort all’ontologia (im)politica di Heidegger e Deleuze, e in Istituzione veniva, invece, presentato un percorso di matrice storico-filosofico del dispiegamento del paradigma istituente, in Vitam instituere si svela il non-detto dell’intero percorso.
Partendo dalla lezione foucaultiana, orientata a un’ontologia dell’attualità, Esposito compie un’operazione di scandaglio genealogico per individuare l’origine di un lemma – vitam instituere – che costituisce, per molti versi, l’innervatura teorica e al contempo storica della (ontologia) politica occidentale. Consapevole però del fatto che ricercando l’Herkunft non si giunge di fronte a un blocco monolitico capace di orientare in maniera univoca la ricerca, bensì si perviene a una proliferazione di percorsi ermeneutici capaci di restituire, in maniera mediata, gli avvenimenti attraverso cui qualcosa si è formato per mezzo di varie e multiformi stratificazioni.
Proprio in quest’ottica, di una «trafila complessa della provenienza», capace di «mantenere ciò che è accaduto nella dispersione che gli è propria» (Foucault 1977, p. 35), si comprende come Esposito dedichi una parte consistente della sua analisi al mondo del diritto romano dove la questione del vitam instituere radica la sua provenienza, in una vicenda filologicamente e storicamente intricata e incerta; e dove essa viene per molti versi smarrita e mancata in quanto, nella prevalenza del diritto sulla politica, della forma sul contenuto, la relazione tra «istituzione e vita – nella forma di un’istituzione vitale e di una vita istituita – è bloccata, nel momento stesso in cui è enunciata, dalla divaricazione insanabile che il diritto apre tra natura e storia» (Esposito 2023, p. 23).
Il passaggio decisivo, secondo Esposito, in cui vita e istituzioni incrociano le loro traiettorie teoriche si trova nel pensiero di Machiavelli. Agli albori della modernità, venuta meno la centralità della trascendenza divina come fonte dell’ordine sociale, lo Scrivano fiorentino, di fronte a un’Italia lacerata dal conflitto, dalla divisione e dal dominio straniero, sente l’esigenza di ripensare la politica ponendosi al di là del formalismo giuridico che aveva caratterizzato tanto la latinità, a cui pure in qualche modo si ispira il suo lavoro, quanto il medioevo cristiano.
Sebbene Machiavelli rappresenti un punto di riferimento dell’intero discorso di Esposito sulle istituzioni sin da Pensiero istituente – naturalmente senza dimenticare la produzione dei primi anni ottanta del Novecento dedicata espressamente al pensiero del filosofo toscano –, mi pare che, coerentemente al discorso genealogico che condotto in Vitam instituere, qui ci troviamo a un livello più profondo di analisi che, per sintetizzare, potremmo considerare come dispiegantesi nella triangolazione tra conflitto, necessità e istituzioni.
Proprio tale connessione complessa consente a Esposito di individuare l’intimo legame che si dà tra vita e istituzione; connessione che era stata in qualche modo obliterata dal mondo romano. È la necessità, che emerge nella forma del conflitto, a generare le istituzioni; ma queste in qualche modo retroagiscono sulla necessità stessa dandole non solo forma ma contenuto nell’ottica di una conflittualità mai risolta e continuamente bisognosa di mediazione. Se volessimo sintetizzare il tutto con una formula, potremmo dire che è vero che è la necessità a fare la legge; ma che al contempo è la legge a generare la necessità. Storia e natura, istituzione e vita incrociano le loro traiettorie non nell’algida forma di un diritto astratto, ma «nel fuoco dello scontro politico» (ivi, p. 56).
Dicevamo che la peculiarità di Vitam instituere, rispetto agli altri testi sul pensiero istituente, consiste nell’utilizzo dichiarato di un metodo genealogico. Proprio in quest’ottica si comprende come Esposito possa inserire il pensiero di Spinoza nell’ambito di un discorso sull’istituzione. L’origine non è mai univoca e determinata una volta per tutte; siamo nell’ambito di un campo di forze che intesse una rete polivoca e complessa. Dunque, nonostante l’ipoteca anti-istituzionale delle interpretazioni politiche di Spinoza – basti pensare a Negri e Deleuze, limitandoci al secondo Novecento –, Esposito ritiene che sia possibile rinvenire nelle pagine del filosofo olandese una linea sottile che traccia un percorso coerente con un pensiero istituente.
Linea sottile che collega in un rimando biunivoco politica e ontologia; meglio, l’ontologia politica di Spinoza. Se la sostanza è “conoscibile” soltanto a partire dai suoi modi finiti, essa si dà sempre nella forma di una vita, ovvero come forma di vita. Qui Esposito non manca l’occasione di ribadire un leitmotiv del suo pensiero: non è possibile pensare una vita che non sia al contempo formata. Anche ex negativo, direbbe Esposito, la nuda vita è una forma di vita.
Proprio in questo contesto, secondo Esposito, Spinoza materializzerebbe un discorso sul carattere istituzionale della vita e sulla natura vitale delle istituzioni; discorso che coinvolge i modi della sostanza tanto a livello singolare quanto a livello trans-individuale (secondo l’interpretazione che Balibar ci fornisce del pensiero spinoziano). Ma c’è di più: nel pensatore di Amsterdam la vita è istituzionalizzata anche a livello politico, alla cui altezza si gioca il conflitto tra individuale e collettivo e in cui permane, contro l’idea della totale immanenza affermativa di Deleuze, un nocciolo di resistenza del negativo alla cui “gestione mediata” è demandata la politica stessa.
Con l’analisi del pensiero di Hegel, Esposito giunge, infine, a un punto decisivo della sua analisi della modernità scandagliata dall’angolo visuale del lemma vitam instituere. È l’immane potenza del negativo, cuore pulsante della logica hegeliana e in generale del suo sistema, a costituire il punto di raccolta teorica attorno a cui convergono le varie direttrici concettuali di un discorso sull’istituzione. Nell’ambito della filosofia dello spirito hegeliano, per Esposito, il punto di passaggio essenziale è quello costituito dal ponte, a due direzioni di marcia, tra spirito soggettivo e spirito oggettivo.
È solo nella negazione dell’individuale che la coscienza per Hegel fa il proprio ingresso sul palcoscenico della storia. L’istituzione rappresenta la forma attraverso cui questa negazione avviene. Con la cauzione, indispensabile nel discorso hegeliano, che ogni superamento è, in quanto Auf-hebung, conservazione di ciò che supera, sebbene a un livello di “consapevolezza” maggiore. Non si tratta di dissolvere l’individuale nel collettivo – motivo per cui per Esposito la lettura totalitaria di Hegel risulta errata –, bensì di comprendere come è solo nell’eticità realizzata, dunque nelle istituzioni della famiglia, della società civile e dello Stato, che la natura dell’uomo si dispiega liberamente. Scrive Esposito:
I due dispositivi – della dialettica e della prassi istituente – implicano lo stesso uso produttivo della negazione. Negano la libertà immediata, per consentirne l’effettuazione in forme necessarie che sono poi le uniche possibili (ivi, p. XIII).
Dopo aver gettato le basi ermeneutiche per comprendere la genealogia del discorso sulle istituzioni, in un vorticoso percorso che va dal diritto romano al pensiero di Hegel, Esposito nella parte finale di Vitam instituere dedica un capitolo all’analisi di alcuni autori attraverso cui la connessione tra vita e istituzione trova forma nel Novecento. In opposizione alla visione anti-istituzionalista di Marx (in cui, in realtà, il discorso sull’istituzione meriterebbe ulteriori approfondimenti), di Nietzsche e di Weber, la cui lunga onda ha riverberi su tutto il Novecento – basti pensare a Sartre e Foucault (almeno fino ai corsi sulla soggettivazione legata alla cura di sé) –, Esposito mostra come sia possibile ripensare una riarticolazione tra natura e storia, libertà e necessità, ragione e immaginazione, ordine e conflitto. Ruolo di un pensiero istituente sarà proprio quello di porsi al centro delle congiunzioni di questi poli, che, sebbene opposti, non possono mai essere pensati come separati ed estranei.
La posta in gioco di questa riarticolazione, come dicevamo in apertura, è quella di un ripensamento essenziale dei caratteri della democrazia occidentale. Una forma politica che, lungi dal porsi al riparo in un’algida neutralità pacificata, trova linfa vitale nel conflitto e nel negativo a partire dalla consapevolezza che «vitam instituere è allo stesso tempo la matrice remota da cui proveniamo e l’obiettivo, ancora indistinto, verso cui muoviamo» (ivi, p. VIII).
Riferimenti bibliografici
R. Esposito, Vitam instituere. Genealogia dell’istituzione, Einaudi, Torino 2023.
Id. Istituzione, Il mulino, Bologna 2021.
Id., Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politicai, Einaudi, Torino 2020.
M. Foucault, Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi, Torino 1977.
Roberto Esposito, Vitam instituere. Genealogia dell’istituzione, Einaudi, Torino 2023.