La profusione di interventi e polemiche filosofiche sulla pandemia dovrebbe indurre al silenzio. D’altronde sono molti tra coloro i quali sono intervenuti, non da ultima su questa testata, ad aver colto che, in un momento di per sé critico, la posta in gioco è quella di ripensare la funzione critica della filosofia. In effetti, ciò che la filosofia può fare non è descrivere l’attuale stato di cose, ma cogliere i sintomi di un mondo a venire.

Antonio Scurati scrive acutamente sul Corriere della Sera del 25 marzo: «Come posso spiegare a mia figlia che, quando guardo fuori dalla finestra, vedo la fine di un’epoca? L’epoca in cui lei è nata ma che non conoscerà, l’epoca del più lungo e svagato periodo di pace e prosperità goduto dalla storia dell’umanità. Vivo a Milano, fino a ieri la più evoluta, ricca e brillante città d’Italia, una delle più desiderabili al mondo. La città della moda, del design, dell’Expo. La città dell’aperitivo, che ha regalato al mondo il Negroni sbagliato e la happy hour e che oggi è la capitale mondiale del Covid-19».

È la fine del postmoderno, l’epoca in cui le ideologie sono mode e le mode possono assurgere a ideologie. In cui niente è serio fino in fondo, perché la storia, dopo la Guerra fredda, è finita. Come insegna un interprete di Hegel del calibro di Kojève, una volta che il percorso della storia umana si è compiuto, agli uomini non resta altro che trascorrere il tempo che resta come se si trattasse di tempo libero, in un mondo ridotto ad arena dei passatempi.

Il Coronavirus ci mette di fronte alla consapevolezza che le cose non stanno così: se non lo avessimo già capito dopo i cataclismi naturali, i rischi di disastri nucleari e la minaccia incombente di una catastrofe ambientale generale, oggi è la natura a rimettere in moto la macchina della storia. È un trauma enorme per l’umanità, specie occidentale, abituata a pensare che il “dominio della natura” fosse ormai, nel bene o nel male, un dato acquisito. Ed è naturale che la reazione sia estrema, oscillando tra la negazione e l’apocalissi, tra il dire che l’epidemia è solo una costruzione sociale o culturale e il dire che non torneremo mai più a vivere la vita così come la conoscevamo.

Mi si permetta di osservare che tanto la prima quanto la seconda tesi altro non è che una diversa e opposta Weltanschauung, la quale, a partire da una percezione dello stato attuale, tenta di formulare immediatamente una norma da seguire. Ma chi, filosofo o non, potrebbe dire in tutta onestà alla propria figlia, magari più grande di quella di Scurati, di andare con gli amici a prendersi un aperitivo durante la quarantena, che è solo l’effetto di una costruzione “biopolitica”? O chi potrebbe dirle che non conoscerà mai una vita, affettiva, sociale, professionale o intellettuale, al di fuori di uno stato latente ma costante di quarantena, in cui le esistenze vanno condotte preferibilmente nel privato di un’abitazione, possibilmente sostituendo il proprio corpo fisico con uno virtuale? È evidente che tanto gli uni quanto gli altri compiono un “peccato filosofico”: quello di mettere in piedi, in fretta e furia, una filosofia della storia futura che giustifichi prese di posizione presenti.

Conviene forse tornare a uno dei maestri della filosofia della storia del Novecento, Walter Benjamin, per provare a elaborare strumenti più adatti ad analizzare l’attualità e le sue possibili conseguenze. Come fa notare Scholem, nelle Tesi sulla filosofia della storia Benjamin mette in campo non una ma due figure del tempo a venire: l’angelo e il messia. Se l’angelo rappresenta una visione del tempo rivolta al passato, alle tragedie umane e dunque alla fine della storia come catastrofe definitiva, il messia rappresenta la possibilità, incerta sul come e sul quando, di una sua redenzione; aggiungerei incerta anche sul carattere ultimo di tale redenzione. L’angelo e il messia stanno in una tensione dialettica irriducibile: l’angelo, ovvero l’accumularsi del male nel mondo, non è subordinato al messia come una necessaria premessa alla vittoria finale del bene.

È compito degli uomini cogliere il rapporto tra i due nel tempo presente, interpretando i “segni dei tempi”, con un’espressione che sicuramente sarebbe piaciuta a Benjamin. È un modo d’intendere quella che Benjamin chiama “immagine dialettica”: non una Weltanschauung, una percezione delle cose che surrettiziamente vuole farsene regola, ma una immagine che mostra aspetti inediti delle cose e, di conseguenza, ne prospetta anche i possibili sviluppi, così come un quadro o un film non sono una copia perfetta del reale fotografato in un istante, ma una rappresentazione incorniciata, prospettica e in movimento (non solo nel cinema).

Il punto è trovare i poli attorno a cui si può ricostruire un’immagine dialettica del presente. Se seguiamo il metodo di Benjamin, un simile lavoro passa spesso attraverso i fenomeni apparentemente secondari, non di rado nei media e nelle mediazioni dell’esperienza che essi propongono, come pochi giorni fa ha fatto brillantemente qui Angela Maiello. È il caso, a mio modesto parere, della App di cui si parla, la quale dovrebbe in futuro permetterci di sapere in tempo reale se siamo venuti a contatto con soggetti positivi al virus. L’idea è di considerare questa App, o congegni simili, non solo come apparati funzionali, bensì come dispositivi di ricostruzione di un’immagine dialettica, un prisma attraverso cui leggere l’esperienza di un’epoca.

L’enorme flusso di dati a cui da anni siamo sottoposti, essendone attivamente partecipi come ha mostrato Maurizio Ferraris, verrebbe messo al servizio della prevenzione. Dalle colonne del Financial Times lo storico Harari ha avanzato forti riserve, rilevando i problemi attinenti alla privacy e allo stesso destino delle democrazie liberali. Alle sue preoccupazioni, sempre sul Corriere della Sera del 25, Vittorio Colao replica: «Mi domando quale italiano non vorrebbe esser avvisato immediatamente e decidere di fare un tampone se fosse stato a contatto con un contagiato». Mi pare che la questione stia nel chiedersi: cosa potrebbe fare una App del genere? Può evitare a priori il contatto indesiderato o può, più realisticamente, ricostruire solo la mappa di un contatto (potenziale) già avvenuto?

Nella pratica tertium non datur: o si dà il caso che un soggetto sa di essere positivo e, se circola, vìola una disposizione di quarantena; oppure non lo sa, dunque arreca inconsapevolmente un potenziale danno agli altri. Nel caso di una applicazione indiscriminata del principio di controllo preventivo, assisteremmo dunque alla disattivazione di un dispositivo giuridico, fondato sul principio dell’habeas corpus, garanzia che le limitazioni della libertà personali sono giustificate da un’esigenza di ordine pubblico o dalla presenza di un “corpo del reato”, in nome della potenziale assolutizzazione di un dispositivo poliziesco, costruito attorno agli assiomi della sorveglianza, della punizione e della segregazione. Solo la seconda opzione, la mappatura a posteriori di possibili focolai di contagio, sembra avere una concreta possibilità di applicazione. Potrebbe servire a predisporre misure di contenimento mirate e circoscritte, fornirebbe dati per un’azione sanitaria più efficace.

Se tutti accettassimo di scaricare la App, non appena qualcuno fosse contagiato, si potrebbe ricostruire la rete dei suoi movimenti dal momento presumibile del contagio e agire di conseguenza. Tutto sta nel fatto che si possa contare sulla protezione dei propri dati personali. Perché è impossibile, Colao lo dice apertamente, che si tratti di dati “anonimi”: si tratterebbe di dati collegati magari a uno “pseudonimo”, dunque non anonimi, ma nemmeno “trasparenti”. Dobbiamo però chiederci quale nuova sensibilità saremmo indotti a sviluppare dal fatto di percepire noi stessi e gli altri come portatori di un segnalatore di pericolo potenziale. Dobbiamo chiederci, per dirla con le parole di Benjamin, a quale nuova “innervazione tecnica”, a quale rapporto tra le tecnologie e la nostra sensibilità, saremmo così esposti e con quali effetti. È molto probabile che questa situazione – proprio perché non ne rifiutiamo le sfide, anche tecnologiche, ma le affrontiamo criticamente – ci porti a riconsiderare uno dei “miti del progresso” che hanno caratterizzato l’epoca a cavallo tra XX e XXI secolo.

Definirei questo mito nel modo seguente: la perfetta coincidenza tra “infosfera” e “mediasfera”, ovvero tra accrescimento esponenziale del flusso di dati (i big data) e aumento vertiginoso delle possibilità di comunicazione ed esposizione di sé attraverso le nuove tecnologie, poco importa qui che si tratti degli addominali scolpiti o di testimoniare la repressione di un regime totalitario. Da una parte sta l’ideale di una regolamentazione preventiva della vita, dall’altra l’incremento dell’interazione a favore dell’individuale, della nicchia, perfino dello scarto, nel senso di ciò che opera uno scarto rispetto al flusso ordinario degli scambi.

Sono due sfere che insistono sul medesimo apparato tecnologico: una App vuole prevenire il contagio epidemiologico, un’altra App vuole metterti in contatto con l’anima gemella. Evitare l’imbarbarimento dell’ethos comune significa anche chiedersi se non sia il caso di tracciare confini più netti tra “dati” e “comunicazione”. Evitando, tra le altre cose, possibili derive di bullizzazione del presunto untore, per esprimerci con il gergo dei nostri tempi. E dissipando l’illusione che si possa sterilizzare quel nucleo irriducibile del tempo che è l’evento, che è sempre in definitiva l’incontro con qualcosa o qualcuno, in nome della prevenzione di un contagio.

Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, Sul concetto di storia, trad. it., Einaudi, Torino 1997.

M. Ferraris, Mobilitazione totale, Laterza, Roma-Bari 2015.
P. Montani, Tecnologie della sensibilità, Cortina, Milano 2014.
G. Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo, Adelphi, Milano 1978.

*L’immagine di anteprima dell’articolo è un frame di Hyper-Reality (2016) di Keiichi Matsuda.

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