Dormo oppure sto sognando
Perché parlo, ma la voce non è mia.
Baustelle

«È l’inizio della fine». Con questi toni apocalittici, nel 1983, Umberto Eco chiudeva il celebre saggio sulla neotelevisione. Ed era in effetti un passaggio epocale quello che apriva gli anni ottanta, epocale per la televisione italiana (dalla paleotelevisione educativa della Rai a quella commerciale berlusconiana) e per il nostro Paese. In questo scenario, la “piccola” storia di un bambino di sei anni, Alfredino Rampi, che il 10 giugno del 1981 cade in un pozzo in un paesino della provincia di Roma, Vermicino, diventando un evento mediatico che blocca un intero Paese davanti ai televisori, rappresenta un caso esemplare: «Certo, a Vermicino un bambino è caduto davvero nel buco, ed è vero che vi è morto. Ma tutto quello che si è svolto tra l’inizio dell’incidente e la morte è avvenuto come è avvenuto perché c’era la televisione. L’evento, catturato televisivamente al proprio nascere, è diventato messa in scena» (Eco 1983, p. 172).

Qui trova espressione quel cortocircuito tra pubblico e privato, che raggiungerà il culmine nel ventennio berlusconiano, e che proprio a partire dagli anni ottanta riguarderà l’impennata consumistica del capitalismo nazionale, la crisi della rappresentanza politica e l’affermarsi di leadership sempre più personalizzate, il trionfo dell’individualismo, con la relativa rivalutazione della sfera privata, che aspira sempre più a diventare visibile. L’importanza di quanto accaduto esattamente quarant’anni fa a Vermicino è restituita anche dai tanti prodotti che l’industria culturale ha dedicato alla tragica storia di Alfredino: libri, non solo volumi d’inchiesta (dai titoli quanto mai significativi) come L’Italia in un pozzo, L’inizio del buio, ma anche romanzi (Dies Irae di Giuseppe Genna), canzoni (non solo Baustelle ma anche Fabri Fibra), programmi televisivi (“Mixer”) e ora anche una miniserie Sky (Alfredino – Una storia italiana).

Ma andiamo con ordine e iniziamo prima del 10 giugno, perché tra maggio e giugno una serie di eventi, in successione, scuote l’Italia: dall’attentato a Giovanni Paolo II (13 maggio) in piazza San Pietro alla resa pubblica (21 maggio), da parte del Presidente del Senato Arnaldo Forlani, dei nomi degli appartenenti alla loggia massonica P2 (come è noto, nell’elenco compaiono parlamentari, ministri, un segretario di partito, diversi generali, banchieri, giornalisti e imprenditori, tanti nomi importanti tra cui quello di Berlusconi) e ancora al rapimento (10 giugno) di Roberto Peci (sarà ucciso il 3 agosto), fratello di Patrizio, primo pentito delle BR.

A completare il quadro, la storia appunto di Alfredino e del pozzo nel quale cade. La Rai arriva sul posto nell’intenzione di raccontare una storia a lieto fine (la situazione si presenta sulle prime di facile risoluzione) proprio per cercare di far dimenticare gli eventi che abbiamo appena ricordato. A Vermicino però le cose si rivelano più complicate del previsto. E il primo e il secondo canale Rai, a reti unificate, dal pomeriggio di venerdì 12 a sabato 13 giugno trasmettono in diretta, per 18 ore (salvo le interruzioni per i telegiornali), il tentativo di recupero del bambino. Malgrado l’intervento di vigili del fuoco, speleologi e volontari (compreso un nano) e la presenza di numerose autorità (tra cui il Presidente della Repubblica Sandro Pertini), l’operazione fallisce e il bambino, il 13 giugno, muore.

La tragica vicenda di Vermicino diventa paradigmatica del ruolo cruciale svolto dai media nel processo di costruzione dell’identità e dell’immaginario degli italiani, nella loro capacità di immaginare e narrativizzare l’ordinario, la vita qualsiasi, la “prosa del mondo” (per dirla con Hegel). Proprio la cronaca diventa allora la via d’accesso privilegiata per mostrare questa dinamica: il farsi racconto del quotidiano eccezionale come una tragedia. Ora, affinché possa accedere a rappresentazione e farsi narrazione, il quotidiano deve aderire e rinviare a strutture archetipiche, mitiche, a forme generiche facilmente riconoscibili dal pubblico. In Italia, a differenza di altre nazioni europee, i fatti di cronaca occupano uno spazio quotidiano non soltanto su giornali e telegiornali ma anche in programmi televisivi che non rientrano propriamente nella sfera dell’informazione (nei cosiddetti infotainment, che mescolano appunto informazione e intrattenimento), collocati in diverse fasce di palinsesto (dal pomeriggio alla seconda serata). II fatto criminale viene immerso in un universo narrativo, con le sue regole e i suoi tempi; viene serializzato e genera fidelizzazione. Si tratta di “casi comuni”, che ci riguardano, che sono in grado di suscitare nel pubblico quella pietà e quel terrore che per Aristotele sono i sentimenti alla base della tragedia. Ecco che quindi i fatti di cronaca diventano il luogo di sopravvivenza del tragico, di un tragico “basso-mimetico”, in cui i protagonisti non sono superiori a noi (come nell’alto-mimetico) ma uguali a noi. Un tragico che sconfina in forme generiche popolari come il melodramma e il poliziesco.

Non sfugge a questo la storia del piccolo Alfredino, che mutua dalla tragedia i suoi codici di rappresentazione. A cominciare dal ruolo cruciale rivestito dal “fuori scena”. Significativa da questo punto di vista allora l’organizzazione dello spazio della scena della tragedia. Questo sembra essere diviso in due parti: da un sopra, tutto visibile, e da un sotto nascosto allo sguardo, ma non ai microfoni, perché appunto la morte di Alfredino è restituita dal lento e straziante spegnersi della sua voce e non dall’immagine del suo corpo. Il mondo di sopra ha i connotati di un grande “carnevale”, come immediatamente i cronisti dell’epoca sottolineano. Nascimbeni sul “Corriere della Sera” il 12 giugno scrive: «Proprio trent’anni fa usciva in America il film di Billy Wilder, L’asso nella manica: esso anticipò i crudeli traguardi cui poteva arrivare l’uso dei mass-media quando si impadroniscono d’una vita in pericolo. Allora è il documento che sostituisce la pietà, l’attesa della salvezza o della morte è costellata da interviste, e la voce d’un bambino che sale da un abisso fa dello spasimo un allucinante spettacolo». Il luogo dell’incidente si trasforma in una sorta di gigantesco “set felliniano”, come evidenziato subito da alcuni giornalisti (secondo Paolo Guzzanti: «C’era un’atmosfera felliniana. […] Anzi, tempo dopo ne parlai con lo stesso Fellini e lui mi disse che avrebbe voluto fare un film proprio su questo clima da circo che c’era a Vermicino») o successivamente anche da studiosi felliniani (Andrea Minuz ha sottolineato come la scena del finto miracolo in La dolce vita prefiguri proprio la tragedia di Vermicino).

Se il “sopra” si caratterizza per questa visibilità portata all’estremo, il “sotto” diventa invece il luogo dell’invisibile. A cominciare proprio dal corpo di Alfredino. Perché in verità, come dicevamo, il corpo del bambino è continuamente assente dalla scena, come nell’Edipo di Sofocle il cui accecamento non è mostrato al pubblico ma raccontato da una terza persona. La morte di Alfredino diventa letteralmente oscena, cioè fuori scena, “ob scena”.

Ecco allora che ancora una volta questa vicenda mostra tutta la sua esemplarità, in un momento storico in cui saranno proprio l’esibizione e la “cultura” del corpo a costituire uno dei fenomeni tipici della nostra società degli anni ottanta. Quella che solo poco tempo prima era stata una fra le società più politicizzate, sembra esprimere ora un massiccio rifiuto della politica e un ritorno all’individuo. La scena sarà dominata ormai da quella “mutazione antropologica”, da quella laicizzazione senza valori di cui scriveva l’ultimo Pasolini: la liberazione sessuale diventa spogliarello televisivo (pensiamo a un film di qualche anno fa, Videocracy di Gandini), pura esibizione di corpi da desiderare. È quello che accade in un programma come Drive in (che inizia proprio nel 1983), emblema della ricchezza di offerta, di intrattenimento, di spensieratezza della televisione commerciale, in cui proprio il corpo (quello femminile delle ragazze fast food) prende la scena non con la parola, né grazie ad una qualche capacità artistica, ma semplicemente attraverso il corpo stesso.

Ecco che la vicenda di Vermicino, che nello stesso tempo è spettacolarizzazione del dolore e negazione del corpo, rappresenta un decisivo punto di non ritorno. E il punto di arrivo di quel processo che porta non tanto all’irruzione dello spettacolo nel quotidiano quanto a una spettacolarizzazione della vita quotidiana stessa, che un film come La dolce vita prima e gli scritti di Pasolini dopo avevano perfettamente anticipato: «È stata la televisione che ha, praticamente concluso l’era della pietà, e iniziato l’era dell’edonè» (Pasolini, p. 692).

È l’inizio della fine. È l’inizio del godimento.

Riferimenti bibliografici
U. Eco, TV: la trasparenza perduta, in Id., Sette anni di desiderio, Bompiani, Milano 1983.
M. Gamba, Vermicino. L’Italia in un pozzo, Sperling & Kupfer, Milano 2007.
A. Minuz, Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011.
P.P. Pasolini, Due modeste proposte per eliminare la criminalità in Italia, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti, S. De Laude, Mondadori, Milano 1999.

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