La strada italiana verso il realismo cinematografico si apre sotto il nome di Giovanni Verga. Sono Mario Alicata e Giuseppe De Santis a evocarlo, sulle pagine della rivista “Cinema”, come nume tutelare di un nuovo modo di concepire il cinema, allora tutto da inventare, che non avrebbe tardato a venire. Era il 1941. Insieme alla caduta del fascismo, il 1943 porterà anche la nascita del Neorealismo che dallo stile di Verga avrebbe ereditato moltissimo, a cominciare dalla capacità di cercare “cose e fatti” da raccontare, «in un tempo e in uno spazio di realtà», così da trasformare il cinema in «un’arte rivoluzionaria ispirata a un’umanità che soffre e spera». Dopo almeno due decenni di «inesistenti paradisi piccolo-borghesi», fa la sua apparizione sugli schermi una folla di poveri, disoccupati, diseredati, umiliati che il cinema fascista aveva accuratamente evitato di mostrare e che ora il cinema neorealista sceglie, al contrario, come suoi protagonisti. A loro spetta il compito di inventare «un paese, un tempo, una società» nuovi, esattamente come aveva fatto Giovanni Verga, grazie alla sua «grande opera di poesia» e ai suoi personaggi. Personaggi che abbiamo imparato a conoscere come dei “vinti”, esistenze che – a prescindere da censo e classe sociale – escono sconfitte dal confronto con la Storia, che a molti e in molti casi, non consente neppure di immaginare un futuro migliore.
I protagonisti del cosiddetto “ciclo dei vinti” sono donne e uomini senza nessuna qualità, se non l’essere privi di tutto, persino della speranza. Per loro, la letteratura – almeno la letteratura italiana precedente e coeva a Verga – non esprime alcun interesse, dal momento che i vinti (proprio quelli che, al contrario, lo scrittore siciliano eleva a personaggi letterari) sono privi, ancor prima di ogni altra cosa, della capacità di agire, o meglio, di fare in modo che le loro azioni riscuotano qualche tipo di successo, raggiungano cioè uno scopo, un obiettivo auspicato. Attorno alle loro esistenze è dunque, letteralmente, impossibile costruire una narrazione, inventare delle storie. La potenza rivoluzionaria del lavoro di Verga consiste esattamente nell’aver dimostrato il contrario, come farà più tardi il Neorealismo, portando sullo schermo una folta schiera di personaggi che, con i loro predecessori verghiani, condividono proprio la stessa incapacità di agire.
È l’inizio della modernità cinematografica che – per citare ancora le parole di Alicata e De Santis – conferma l’esistenza di un destino comune, che tiene insieme letteratura e cinema, dal momento stesso in cui questo sceglie di trasformarsi da semplice forma di documentazione in vero e proprio racconto. In questa prospettiva, è persino plausibile «collocare spontaneamente la storia del Cinema come un insostituibile capitolo nella storia del gusto letterario e artistico del Novecento». Ne deriva, altrettanto spontaneamente, l’esigenza di mettere a punto una forma cinematografica nuova, capace di corrispondere allo stile verista di Verga: inventare cioè un cinema che racconti, con una lingua nuova, tutte le storie che fino a quel momento nessuno aveva raccontato, o – per dirla ancora più radicalmente – un cinema che inventi un mondo nuovo, nascosto oltre le menzogne del regime fascista e gli orrori della guerra mondiale. Inteso così, il realismo altro non è che lo strumento che permette di squarciare il velo delle ipocrisie borghesi e farla finita con i falsi mondi che il cinema fascista aveva negli anni sapientemente costruito.
Dentro questo quadro, non stupisce dunque che due fra le più note opere di Verga – La lupa e I Malavoglia – siano state fonte di ispirazione per altrettanti film neorealisti: Furia (1947) di Goffredo Alessandrini e La terra trema (1948) di Luchino Visconti. In un caso come nell’altro, il debito nei confronti dello scrittore siciliano e del suo stile non si palesa soltanto nel tentativo di trasferire fedelmente sullo schermo la lettera verghiana. Il mondo di Verga appare piuttosto, con ogni evidenza, ai registi del Neorealismo, un mondo a cui guardare per creare personaggi e storie nuove, capaci di riferirsi, più o meno direttamente, all’Italia povera e diseredata del dopoguerra, della quale la Sicilia di fine Ottocento è per certi versi antesignana. In questo senso, Verga e i suoi romanzi sono presenti nel cinema neorealista non solo come rimando più o meno esplicito, ma piuttosto come generale fonte letteraria e linguistica: non solo ne La terra trema, insomma, ma ben oltre essa.
Per converso, La terra trema è la dimostrazione di come la lettera verghiana (se fedelmente interpretata) può essere soltanto un punto di partenza da tradire, se è vero – come è vero – che in Verga realismo non significa mai mimetismo. Affermazione questa che va considerata tanto più valida nel caso in cui il reale da cui prendere ispirazione sia già (come nel caso di un romanzo), a sua volta, una trasfigurazione del reale.
Di tutto questo, sembrano essere già ben consapevoli Alicata e De Santis che mettono a fuoco la questione nel loro breve scritto: la verità che unanimemente siamo disposti a riconoscere nei racconti di Verga, non è da intendersi mai, ingenuamente, come la restituzione mimetica di una presunta realtà oggettiva e materiale che la scrittura ha il compito di rappresentare. La verità a cui è connesso, tradizionalmente ormai, il nome di Giovanni Verga è al contrario l’esito di una creazione – un’invenzione, potremmo dire – e solo per questa ragione può servire da ispirazione per altre operazioni simili, come l’esperienza neorealista perfettamente dimostra. Il realismo – inteso qui come questione teorica che dopo la letteratura finisce inevitabilmente per interessare il cinema – ha insomma «una natura rigorosamente narrativa»: «Il realismo non come passivo ossequio ad una statica verità obbiettiva, ma come forza creatrice, nella fantasia, di una storia di eventi e di persone, è la vera ed eterna misura d’ogni espressione narrativa».
Possiamo fare un salto in avanti e sostenere – come, qualche anno dopo Alicata e De Santis, ha fatto Pier Paolo Pasolini – che il realismo è un fatto non solo narrativo, ma ancor più radicalmente linguistico. E se non c’è lingua che non sia inventata, allora non esiste realismo senza una creazione che lo renda possibile. Nella riflessione teorica di Pasolini sul cinema, questa creazione si chiama “soggettiva libera indiretta” ed è ancora una volta l’esito di una trasposizione del lavoro letterario di Verga in ambito cinematografico, di quella forma del discorso che è stato definita “libero indiretto”, la cui invenzione va attribuita proprio allo scrittore siciliano. Si tratta, come noto, di un discorso a metà strada fra quello diretto, in cui i personaggi di un racconto prendono in prima persona la parola, e quello indiretto in cui l’autore si fa interprete del pensiero dei suoi personaggi e lo restituisce con un linguaggio che non è (non può essere) quello dei protagonisti del racconto.
È evidente, dunque, in che senso il “discorso libero indiretto” abbia a che fare inevitabilmente con la creazione di una lingua che non esiste e che è esattamente il risultato della confluenza della lingua dei personaggi di un racconto – nel caso de I Malavoglia, il siciliano parlato dai pescatori di Aci Trezza – e quella dell’autore dello stesso racconto, un nobile intellettuale e scrittore catanese. La lingua che Verga inventa nel suo romanzo più celebre porta con sé la creazione di un mondo, ed è stata in grado di influenzare non solo la letteratura successiva, ma anche (molto tempo dopo) il cinema che, in seguito alla caduta del fascismo e alla fine della guerra, si sarebbe fatto interprete di un generale desiderio di rinnovamento, sociale, politico, culturale.
Quando comincia la sua carriera cinematografica – prima come sceneggiatore, soltanto dopo come regista – Pasolini non può non confrontarsi con l’esperienza appena conclusa del Neorealismo. Persino l’idea nota di un cinema inteso come «lingua scritta della realtà», che Pasolini avanza in uno dei suoi scritti teorici, ancora nel 1965, si può dire abbia molto a che fare con il cinema neorealista. Sarebbe addirittura ridondante aprire una parentesi su questo, in questa sede. Più interessante, mi pare, sia ipotizzare che lo scarto che conduce Pasolini fuori dal Neorealismo, verso una nuova forma di autorialità cinematografica, si giochi ancora una volta attorno al nome di Giovanni Verga. È infatti lo stile verista di Verga a suggerire a Pasolini l’idea della “soggettiva libera indiretta”, consentendogli di radicalizzare quella ipotesi di realismo cinematografico che Alicata e De Santis avevano profilato precisamente vent’anni prima l’uscita sugli schermi di Accattone (1961). Il realismo pasoliniano rivendica, infatti, ancor più platealmente, il rifiuto di ogni illusione oggettivante, palesando – proprio attraverso l’uso della “soggettiva libera indiretta” – la presenza sulla scena dello scrittore-regista che diventa Autore, e che è il solo creatore di quella porzione di realtà che il racconto cinematografico restituisce. Ciò che vediamo in opera è un lavoro complesso di appropriazione e trasfigurazione del reale che tiene insieme sguardi diversi: quello dei protagonisti del film e quello del regista. Da quel momento in poi, e per molto cinema successivo, il reale non sarebbe stato che l’esito di questa confluenza di punti di vista, il prodotto, cioè, di una negoziazione sempre in via di ridefinizione.
È l’eredità che la migliore tradizione letteraria e cinematografica italiana ci lascia ancora da pensare, quella dentro cui si muove anche molto cinema contemporaneo che sempre più spesso mescola regimi diversi dell’immagine (il documentario e la finzione, per dirla forse troppo facilmente). Ma questa è un’altra storia, e si sta ancora scrivendo.
Riferimenti bibliografici
M. Alicata, G. De Santis, Verità e poesia, in “Cinema”, n. 127, 1941.
P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 2015.
G. Verga, I Malavoglia, Mondadori, Milano 2017.