Basterebbe una gondola e invece è un elegante motoscafo a traghettarci dalla costa occidentale del Lido all’Isola del Lazzaretto Vecchio. Trenta secondi di viaggio e siamo nell’area della Mostra adibita al VR cinema: quest’oggetto misterioso, talvolta esaltato come il futuro della settima arte, altre volte concepito come una moda, oppure, ancora, come una nuova tecnologia di controllo.

La selezione di quest’anno si compone di quarantuno opere, tra quelle in concorso (Linear e Interactive) e fuori concorso (Best of e Biennale College Cinema VR). In sala stampa, in fila ai bar attorno al Palazzo del Cinema, tutti parlano di un’opera in particolare: The Key (2019), della regista Celine Tricart, concepita come «un’esperienza interattiva che mescola teatro immersivo e realtà virtuale [e dove] il partecipante prende parte a un viaggio, esplorando dei sogni nei quali deve affrontare sfide e decisioni difficili, compresa l’esperienza della perdita». Tutti ne parlano e infatti è impossibile vederlo, farne esperienza. Gli slot di prenotazione sono pressoché interamente esauriti. Meglio spostare l’attenzione su un gruppo di video in VR, magari non così nutrito all’interno della selezione di quest’anno, ma sicuramente capace di porre una serie di interrogativi pratici e teorici su questa nuova forma espressiva: quelli a carattere documentario.

Ecco allora quattro opere presentate nella rassegna: Daughters of Chibok, Battle Hymn, VR Free e The Sleepless Nights. I primi tre sono inseriti all’interno del concorso Linear, ovvero realizzati attraverso videocamere a 360 gradi, dove lo sguardo dello spettatore è lasciato libero di ruotare senza poter tuttavia penetrare gli ambienti audiovisivi precedentemente filmati. Il quarto è inserito nella selezione Interactive e costituisce una forma di mixed reality. Si tratta di quattro video a tema sociale e politico profondamente diversi tra loro, la cui comparazione offre tuttavia la possibilità di tornare a riflettere su una serie di aspetti centrali del VR cinema: la pretesa di trasportare lo spettatore all’interno di un ambiente percettivo e in un luogo diverso da quello in cui è fisicamente collocato; il rapporto che si instaura tra immersione e straniamento; la scomparsa del corpo.

Daughters of Chibok, di Joel Kachi Benson, racconta la storia di Yana e delle altre madri della comunità agricola di Chibok, in Nigeria, sconvolte dal rapimento delle proprie figlie dal gruppo terroristico di Boko Haram nel 2014. Negli undici minuti di durata del video, gli ambienti esplorabili a trecentossessanta gradi coincidono perlopiù con gli esterni del villaggio. Mi trovo di fronte alle donne impegnate a portare avanti la lotta per ricongiungersi con le proprie figlie e per non dimenticare il trauma subito. Il coinvolgimento corporeo – i movimenti del collo all’interno dell’inquadratura sferica – mi dà l’impressione di essere un testimone diretto di quanto si trova davanti ai miei occhi. La pretesa di questo e di altri video documentari a trecentosessanta gradi è del resto quella di “amplificare la voce di coloro che normalmente non verrebbero sentiti” riducendo le distanze tra il luogo in cui lo spettatore è fisicamente collocato e i paesi del cosiddetto Global South.

Eppure, in un video come Daughters of Chibok, proprio spostando il visore in basso a cercare il proprio corpo, è possibile incontrare uno dei principali limiti pratici e teorici – per non dire etici e politici – dei video documentari a trecentosessanta gradi. Sebbene il visore risponda ai movimenti del collo, dandomi l’illusione di una percezione incarnata, il resto del corpo scompare. Le mie gambe, i miei piedi sono invisibili e tutto il corpo sembra fluttuare, vicino ai protagonisti del video ma sospeso a pochi centimetri da terra. Da incarnata che era, la percezione torna a coincidere con un punto di vista astratto.

Stessa durata del precedente, Battle Hymn segue un gruppo di militari israeliani impegnati in una missione nei villaggi palestinesi della West Bank. Il punto di vista sugli eventi è “embedded”, pienamente organico all’apparato militare, ma il finale a sorpresa presenta un risvolto buonista: il prigioniero palestinese in manette intona un canto al quale si unisce il gruppo di soldati israeliani. Canto inteso, nel testo di presentazione del video, come “l’inizio di un nuovo dialogo politico”.

Al di là delle perplessità generate dal connubio di violenza militare e invocazione alla pace, a costituire il punto di maggiore interesse e di maggiore criticità del video è nuovamente la posizione assegnata allo spettatore e gli effetti paradossali derivanti dalla pretesa del cinema a trecentosessanta gradi di proiettarlo, in carne ed ossa, laddove non è né può essere.

Rispetto a Daughters of Chibok, in questo caso lo spettatore occupa una posizione che – ricorrendo al linguaggio cinematografico – potremmo dire “soggettiva”: una volta indossato il visore VR, percepisco il mondo con gli occhi di un soggetto figurativamente riconoscibile all’interno della scena e diegeticamente determinato. Proprio con il fine di aggirare il problema della scomparsa del corpo e l’effetto straniante sopra descritti, la composizione di Battle Hymn assegna infatti allo spettatore il busto e gli arti di uno dei soldati del battaglione, osservabile all’interno degli ambienti virtuali. L’effetto che si produce è un’incompatibilità tra il residuo di astrazione presente nel video – una sorta di buco nero nel corpo del soldato nel quale incappiamo abbassando lo sguardo – e il tentativo di sviluppare una percezione incarnata. Laddove stimolato a mettere in gioco la dimensione sensibile dell’esperienza, non posso fare a meno di sentire l’alterità dell’arto simulato.

È dunque possibile, attraverso i video a trecentossessanta gradi a carattere documentario, fare esperienza di un ambiente profondamente distante dal nostro quotidiano? È questa la domanda che si trova anche in VR Free, realizzato da Milad Tangshir all’interno del Carcere di Torino. In questo caso ci troviamo all’interno della struttura di detenzione: in una cella, nei corridoi, nello spazio all’aperto dove si svolge l’ora d’aria, sopra il vassoio per la distribuzione dei pasti. Come in Daughters of Chibok e molti altri video a trecentosessanta gradi prodotti nel corso degli ultimi anni, anche in questo caso, spostando il visore in basso, non c’è traccia del nostro corpo. Guardandoci attorno abbiamo l’impressione di trovarci in galera, ma non è nient’altro che l’effetto di un’illusione, niente di più.

Eppure, in questo caso, il regista sembra attuare una strategia capace di creare un possibile punto di condivisione, se non di contatto, tra la condizione dei detenuti e quella degli spettatori. Tutto sembra procedere secondo le retoriche di un’immersività intesa come accorciamento o negazione delle distanze, quando, d’improvviso, ci troviamo di fronte a un uomo che indossa quello stesso visore VR che abbiamo indossato noi per accedere al video e a quell’ambiente. Si tratta di un carcerato. Dopo aver osservato i suoi gesti impacciati da “mosca cieca”, ecco che per qualche secondo ci sintonizziamo con la sua visione, con ciò che sta osservando grazie al visore e che lo porta ad evadere dal luogo di detenzione: un’inquadratura subacquea di Ustica, un mare straordinario nel quale, come ci informa la sua voce fuoricampo, ha fatto immersioni bellissime prima di essere incarcerato.

Seguendo l’idea di VR Free, non è dunque negando le distanze che si può fare esperienza diretta della condizione di chi vive in contingenze traumatiche. Non è qui (dove lo spettatore è fisicamente collocato) né (il carcere come ambiente simulato) che può incontrarsi chi vive contingenze incommensurabili, ma in un ambiente di mediazione, in uno spazio di articolazione dei valori e dei desideri reciproci, in un’area di interconnessione delle virtualità.

L’ultimo dei quattro video, l’ultima delle quattro esperienze fatte al Lazzaretto Vecchio in questi giorni di Mostra del Cinema, è The Sleepless Nights di Gabo Arora, dedicato al tema della crisi degli sfratti che ha colpito molte famiglie negli Stati Uniti nel corso degli ultimi anni. Rispetto ai precedenti video, si tratta in questo caso di un’installazione interattiva – dove lo spettatore è invitato a “toccare” un muro e una serie di figure astratte che si palesano di fronte ai suoi occhi.

Il visore per la mixed reality non propone infatti un ambiente a base fotografica che si sostituisce integralmente alla realtà percettiva circostante allo spettatore, ma genera piuttosto una sovrapposizione tra segni visivi di diversa natura. In questo caso, il racconto si attiva in relazione ai movimenti del corpo dello spettatore. I protagonisti del video si manifestano attraverso forme grafiche astratte, mentre le loro voci descrivono i dettagli delle storie che li riguardano. Pur filtrato dalle sagome di queste voci-personaggi, il mio corpo e l’ambiente circostante non scompaiono mai: la composizione audiovisiva dell’installazione mi invita a tenere insieme e, al contempo, separati i due ambienti dei quali faccio esperienza.

Si tratta di un progetto interessante, tanto più se si considera l’importanza avuta da Arora nel lancio del cinema a trecentosessanta gradi a tema sociale e umanitario. Sono state le sue opere prodotte dall’ONU, come Waves of Grace (2015) e Clouds over Sidra (2015), a veicolare con forza un’idea del VR cinema come modo per “superare i limiti della cornice collocando lo spettatore all’interno degli eventi stessi, giusto accanto a coloro che stanno vivendo l’emergenza”. L’esperimento di The Sleepless Nights sembra costituire una riconsiderazione di una simile concezione del VR cinema improntata alla trasparenza. Ciò che conta non è dunque suscitare nello spettatore l’impressione corporea dell’altrove, ma fargli fare esperienza della soglia, di ciò che avvicina e di ciò che distanzia la sua condizione da quella dei protagonisti degli eventi raccontati.

Lasciando il Lazzaretto Vecchio e tornando al Lido sul motoscafo, l’ambiente veneziano suggerisce una possibile descrizione sintetica di quanto ho provato a dire finora con tante parole: grazie alle nuove tecnologie, possiamo illuderci di staccarci dalle coordinate percettive del nostro ambiente per fare esperienza di un altrove, utopico o distopico. Ma, alla fine, dopo pochi minuti, dopo pochi passi e movimenti del corpo, dobbiamo tornare. A guardare bene, è facile rendersi conto che, anche proiettandoci in un altro corpo e in un altro mondo, non possiamo fare a meno di avvertire il persistente richiamo di questo corpo e di questo mondo. La parte più interessante dal punto di vista estetico e politico è proprio lavorare sui punti di passaggio, sui ponti, tra i due ambienti interconnessi. Alla fine, il VR cinema è come un’isola vicina.

Riferimenti bibliografici
J. Crary, Le tecniche dell’osservatore. Visione e modernitùa nel XIX secolo, Einaudi, Torino 2013.
C. Dalpozzo, A. Negri, F. Novaga, a cura di, La realtà virtuale. Dispositivi, estetiche, immagini, Mimesis, Milano 2018.
F. Zucconi, Preposterous media: applicazioni umanitarie del VR cinema e pittura a lume di note, in “Arte Cristiana”, Special Issue (Multi)media Art, Digital Art, arte sacra. Costruire un dialogo, a cura di G. Zanchi e R. Eugeni, n. 912 (2019).

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