Vedere la morte

di LUNA PICCIONI

La Maladie de la Mort di Katie Mitchell. 

Foto di Stephen Cummiskey.

Ho letto ne ‘Les Cahiers du Cinéma’ che un regista è come… come un guardone, un voyeur. È come se la macchina da presa fosse il buco della serratura della porta dei tuoi genitori. E tu li spii, e sei disgustato, e ti senti in colpa, ma non puoi fare a meno di guardare. Fare i film è come un reato. Un regista è come un criminale. Dovrebbe essere illegale.”

The Dreamers, Bernardo Bertolucci

Un regista è come un voyeur e la macchina da presa come il buco di una serratura attraverso cui spiare: questo ci diceva Bernardo Bertolucci per bocca di Matthew quindici anni fa. In questo caso il buco della serratura affaccia su una stanza d’albergo nella quale un uomo ed una donna si incontrano segretamente e lo spettatore, nel momento in cui entra in sala accostando dunque il metaforico occhio alla metaforica serratura, si ritrova a tutti gli effetti ad assumere il ruolo di vero e proprio voyeur di ciò che lì dentro sta per accadere.

I personaggi sono soltanto due, come nel testo originale di Marguerite Duras, ma nella realtà dell’azione scenica sono circa una decina il che funge da nucleo scatenante a rendere questa rielaborazione incredibilmente interessante sotto innumerevoli aspetti. Il motivo di questa moltiplicazione dei “personaggi” in scena ha infatti a che fare con la struttura formale della rappresentazione che viene giostrata su due piani differenti: il palco (come canonicamente richiesto da una rappresentazione teatrale) sul quale coesistono però interpreti e tecnici per tutta la durata dello spettacolo ed uno schermo subito sovrastante tramite cui vengono rapidamente montate e proiettate le immagini riprese in tempo reale sulla scena.

Lo sguardo raddoppia godendo in questo modo del privilegio di assistere a due spettacoli differenti (perché differente è la tecnica usata) in contemporanea, ma armonicamente intrecciati a formare un unicum rappresentativo nel quale l’uno non può prescindere dall’esistenza dell’altro ed i due piani si configurano reciprocamente come l’uno il doppio dell’altro.

Il palco è contaminato da elementi estranei ad una rappresentazione teatrale come ad esempio macchine da presa, lunghe aste con microfoni all’estremità e gli attori stessi contravvengono continuamente alla regola tradizionale fondamentale secondo cui chi è sul palco, qualunque posto stia occupando in quel momento, non possa spogliarsi dei panni del suo personaggio e comportarsi come fosse fuori dalla scena, mentre in questo caso vediamo gli attori recitare unicamente quando sono inquadrati dalla telecamera utilizzando il restante tempo per prepararsi rapidamente alla scena successiva: è il riflesso che riceve dalla proiezione e la sua stessa esistenza a permettere che ciò accada, ma allo stesso tempo ed in forma circolare è proprio ciò che accade sulla scena in queste particolari modalità a permettere la realizzazione e l’esistenza della proiezione.

Questa stretta interconnessione permette di interrogarsi sulle trasformazioni che inevitabilmente ne ricavano le due controparti, come ad esempio l’annosa questione legata all’(im)possibilità di trasportare l’opera teatrale su pellicola in quanto minerebbe la natura stessa del teatro nella sua costituzione hic et nunc, la necessità della compresenza psico-fisica di attore e spettatore. Nonostante questa compresenza permanga, lo spostamento su supporto tecnico è stato possibile e, per quanto non si tratti di una risoluzione al problema, si può certamente parlare di un tentativo, cosciente o meno, da parte della regista Katie Mitchell di porre un focus sulla questione.

Sull’altro versante la situazione è forse ancora più interessante dal momento che, con successo, si è riusciti a rendere il prodotto di un mezzo tecnico (quello cinematografico, che da sempre si sottrae inesorabilmente all’hic et nunc) unico ed autentico, per usare termini benjaminiani. Le immagini che scorrono sullo schermo subito sopra il palco sono infatti il frutto delle riprese di ciò che accade in scena in tempo reale;  questo permette di essere spettatori di quel doppio esattamente sincronico seppur diverso nelle sue componenti di cui si è parlato prima, ma soprattutto di poter ottenere una proiezione cinematografica dello stesso spettacolo differente ed assolutamente unica per ogni rappresentazione.

Il concetto di aura (è sempre Benjamin a suggerire il termine) può in questo particolare caso essere esteso ad un campo che tradizionalmente lo ha sempre rifiutato e che qui accoglie invece il valore cultuale di star assistendo ad un evento unico ed irripetibile grazie alla commistione con il teatro che dal canto suo, specularmente, ha da sempre provveduto a sottrarsi a ciò che invece caratterizza la cinematografia, la riproducibilità tecnica.

Naturalmente non è detto che questo apparato critico fosse contenuto già da subito nelle intenzioni registiche di Katie Mitchell e, anche se non è rilevante che alcune questioni siano state progettate dall’autore per essere poi effettivamente presenti nell’opera, è assai più probabile che la compresenza di teatro e cinema sia stata dettata dalla volontà di realizzare nella sua totalità un suggerimento della stessa Marguerite Duras contenuto al termine del suo scritto La Maladie de la Mort.

Subito dopo l’ultima riga del testo l’autrice ha infatti aggiunto una sorta di inusuale “lettere aperta” a chiunque volesse cimentarsi in una sua realizzazione artistico-visiva fornendo indicazioni per una realizzazione teatrale e, più brevemente, per una cinematografica.

È probabile che l’idea fosse quella di realizzare entrambi i suggerimenti in contemporanea incrociando più linguaggi artistici senza scinderli in due prodotti a cui dedicare due momenti differenti: lo mostrano le numerose affinità con le indicazioni contenute nella lettera come ad esempio la presenza di una voce narrante che legga passi del testo (impersonata da Jasmine Trinca) o la presenza delle pochissime scene pre-registrate che contengano lo spumeggiare del mare montate all’interno della proiezione e che a loro volta rimandino alle lenzuola bianche, quasi spumeggianti, del letto su cui è stesa per la maggior parte del tempo Laetitia Dosch, l’attrice protagonista.

L’intera rappresentazione, come anche il testo, ruota attorno al tema della malattia della morte che non ha nulla a che fare con la morte corporea, assolutamente distante dalla morte pirandelliana de L’uomo dal fiore in bocca che sogna di renderla un insetto per poterselo scrollare via di dosso e continuare a vivere, l’uomo in questione (interpretato da Nick Fletcher) ha già smesso di vivere e sta per “morire di morte” (come osserva la donna con lui nella camera d’albergo, classico luogo-non luogo impersonale che rimanda simbolicamente alla loro relazione-non relazione) senza che lui neanche se ne accorga.

Questo genere di malattia è collegata alla capacità di amare (cosa che l’uomo in questione non è in grado di fare e che tenta assoldando una donna che resti a sua completa disposizione per un numero non precisato di notti), ma soprattutto con il vedere. Amare e vedere sono termini continuamente accostati: l’uomo non è in grado di amare perché non è in grado di vedere, e viceversa. Più e più volte la donna lo incita a guardarla, a vedere cosa ha di fronte a sé, ed altrettante volte l’uomo dichiara di non vedere niente.

L’accostamento è in primo luogo linguistico; non si tratta, naturalmente, di uno sguardo inteso a livello fisico, ma di uno sguardo che ha a che fare con la comprensione: in molte lingue tra cui il francese (lingua in cui è recitata la rappresentazione, nonché lingua di Marguerite Duras), l’italiano, ma soprattutto l’inglese (lingua madre di Katie Mitchell) i termini “vedere”, “comprendere”, “accorgersi” si fondono fra loro fino ad essere quasi interscambiabili. Ciò che lui non vede è cosa c’è da capire, di cosa debba accorgersi e non se ne accorge né lo comprende proprio perché non lo vede: nota che c’è qualcosa di diverso nella stanza con o senza di lei, una “differenza” come viene descritta nel testo, che a tratti lo infastidisce, ma non riesce a capire in cosa consista questa differenza, non la vede.

Non sono casuali infatti le scene aggiunte da Katie Mitchell (e non presenti nel testo originale) in cui l’uomo osserva il corpo della donna in tutti i suoi dettagli tramite l’ingrandimento di ogni parte del corpo nudo per mezzo di un cellulare nel tentativo di vedere e dunque capire cosa non riesca a vedere, ma ancora una volta mediando il corpo della donna nello stesso modo in cui è mediato il materiale pornografico che scarica sul suo computer e non facendo altro che de-personificarlo e porlo fuori da qualsiasi possibile sguardo.

L’uomo vive una vita heideggerianamente inautentica in cui progetta di amare una donna che paga a questo scopo senza che il loro rapporto abbia mai nulla di sentimentale ed affidandosi al Si del “si dice che l’essere umano debba amare” senza aver mai sperimentato nulla del genere in prima persona, dunque adoperandosi affinché ciò avvenga tramite un atto di volontà mal veicolato destinato a fallire: è la stessa donna poeticamente a suggerire che “il sentimento d’amore potrebbe sopravvenire da una frattura improvvisa nella logica dell’universo, da un errore, ma mai dalla volontà” ed è sempre lei a svelare il secondo punto fondamentale nel sostenere che “voi annunciate il regno della morte. Non si può amare la morte se viene imposta dal di fuori. Voi credete di piangere perché non amate. Voi piangete per non poter imporre la morte.”

Non è infatti una consapevolezza dell’esser-per-la-morte quella dell’uomo in questione dal momento che la morte lo ha già inglobato, ma lui non riesce neanche a rendersene conto, non riesce a vederla (è solo la donna ad accorgersene ed a svelarglielo), dunque non è qualcosa che possa governare o di cui possa disporre, agisce come agirebbe una mosca completamente cieca che sbatte da un angolo all’altro tentando di progettare un futuro, non rendendosi conto della sua stessa situazione di figura tragica proprio perché irrimediabilmente inconsapevole.

Un pensiero finale percorre la mente dell’uomo trasformandosi in tentativo all’interno della rappresentazione teatrale: quello di uccidere la donna. La motivazione in entrambi i casi è che in questo modo “sarebbe più facile per lui”, ciò che sarebbe più facile (sbagliando) è sostenere la sua situazione di cui, non riuscendo ad esserne cosciente, non riesce ad individuare la natura. Il suo stato di morte, la sua malattia, non ha nulla a che vedere con lo stato di morte in cui sarebbe incorsa lei se lui l’avesse poi realmente uccisa in un tentativo inconsapevole di accomunamento dei loro rispettivi stati, di eliminazione di quella insopportabile differenza così evidente a causa della presenza di lei. Non si tratta di quella “malattia della morte” che noi tutti ci portiamo dietro in quanto esseri umani (un esser-per-la-morte, appunto) fino a vederla un giorno inesorabilmente realizzata, ma di un approccio alla vita che lo porta a programmare cose senza avervi realmente accesso e finendo con il “vivere questo amore nel solo modo possibile per lui, perdendolo prima che si realizzasse”.

Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, ET Saggi, Torino 2014.
M.Duras, La Maladie de le Mort, Universale Economica Feltrinelli, Milano 1993.
M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 2010.

Aggiungi ai preferiti : Permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *