La debolezza è sublime, la forza spregevole.
Quando un uomo nasce, è debole ed elastico.
Quando muore, è forte e rigido […]
La flessibilità e la debolezza esprimono la freschezza della vita.
Perciò chi è indurito, non vincerà.
Lao-Tze, Tao Te Ching LXXVI,
citato in Stalker di Tarkovskij.
«Per molto tempo mi sono alzato presto; per andare a messa, prima della scuola, prima dell’ufficio, delle lezioni all’università». È il 1996 quando Vattimo, con Credere di credere, esplicita la svolta religiosa della sua ricerca, che a livello esistenziale si configura come un ritorno. In Credere di credere Vattimo parla in prima persona, avanzando a più riprese dubbi su questa sua scelta, ma è proprio questo tratto stilistico che rende centrale nel suo percorso teorico un’opera all’apparenza occasionale, nata come sviluppo di un’intervista a due voci con Sergio Quinzio apparsa qualche mese prima su «La Stampa». Parlare in prima persona significa affermare un’idea di verità incarnata, così da porsi già implicitamente in un orizzonte cristologico. Non si tratta soltanto di mettere in questione l’idea di verità come adaequatio rei et intellectus, di interrogare la differenza dell’Essere dalla datità degli enti, di fare della sentenza nicciana “non ci sono fatti, solo interpretazioni” la guida per un’ontologia ermeneutica. La verità si fa carne, aprendosi totalmente all’imprevedibilità e irrimediabilità dell’evento e dei corpi, dei deboli corpi che lo attraversano.
La tesi fondamentale di Credere di credere: il cristianesimo è la religione della kenosi di Dio. Così Paolo di Tarso, rivolto a Gesù: «Egli era come Dio ma non conservò gelosamente il suo essere uguale a Dio. Rinunziò a tutto: diventò come un servo, fu uomo tra gli uomini e visse conosciuto come uno di loro» (Lettera ai Filippesi, 2, 6-7). Tale kenosi è speculare all’indebolimento dei principi metafisici, come sostenuto dalle diverse declinazioni del pensiero post-heideggeriano, tra cui quella del pensiero debole che ha trovato in Vattimo il suo riferimento più autorevole. La celebre raccolta Il pensiero debole, curata da Vattimo e Rovatti, se letta alla luce di Credere di credere, e dell’evoluzione che in questi 40 anni hanno avuto molti dei suoi partecipanti, si rivela del resto non più come opera inaugurale di un nuovo modo di pensare, ma come un luogo di incontro temporaneo, che segna una stagione specifica del dibattito filosofico occidentale, quello tra gli anni settanta e ottanta, in cui la crisi dei fondamenti si sposa con una diffusa koinè ermeneutica e con la ricostruzione e la riorganizzazione delle mappe di riferimento teorico. Mappe nelle quali convivevano Marx e Schmitt, Benjamin e Wittgenstein, la psicoanalisi di stampo freudiano e l’antropologia di Lévi-Strauss, ma quasi sempre tracciate a partire dall’orizzonte del nichilismo, come delineato da Nietzsche e Heidegger.
Se volessimo ricostruire l’orizzonte della svolta religiosa del pensiero debole, a questi nomi dovremmo aggiungere almeno Girard e Pareyson. Da una parte, con Girard, il cristianesimo come religione che svela il meccanismo sacrificale vittimario che lega violenza e sacro e in tale svelamento ne indica la possibile emancipazione (Girard). Pareyson, che tra i grandi maestri dell’ermeneutica filosofica, è quello che con più forza ne ha rivendicato la matrice esistenzialista e da lì l’orizzonte di un cristianesimo tragico, lontano da ogni tentativo di sintesi o di conciliazione, che sia di derivazione tomista o hegeliana (Pareyson 1971). Ogni atto di lettura è già di per sé scrittura, che disloca l’intenzione originaria di un autore, per cercare nel testo possibilità non viste, risonanze diverse. È quasi ridondante sottolineare la tendenziosità di questa mappatura, che fa dialogare autori distanti, i quali però a loro volta hanno anch’essi manifestato la stessa “violenza” ermeneutica nel costruire i propri orizzonti. La domanda da porsi è piuttosto: in che modo Credere di credere, e più in generale il pensiero debole nella sua declinazione religiosa, rifigura il rapporto tra filosofia e teologia?
Dal lato della filosofia. Vattimo descrive una storia dell’Essere segnata dall’avvento del nichilismo. Su questo punto perciò, condivide la diagnosi di Nietzsche e Heidegger. «Che cosa significa nichilismo? – che i valori supremi si svalutano. Manca il fine; manca la risposta al perché» (Nietzsche 1992, p. 9). Ma lì dove in Nietzsche il cristianesimo era descritto come una forma reattiva guidata dal risentimento, una forma di nichilismo passivo, che impediva la redenzione dell’oltre-uomo, condividendo perciò pur con segno rovesciato l’impostazione dostoevskiana della contrapposizione tra cristianesimo e nichilismo; lì dove Heidegger assegna nei suoi corsi sulla storia dell’Essere, poi raccolti nel Nietzsche, un ruolo sostanzialmente marginale al pensiero cristiano (cfr. Heidegger 1994, pp. 863-930) e alla sua capacità di fuoriuscire dalla matrice greca che segna le diverse tappe dell’ontologia, Vattimo riconosce invece nel nichilismo l’esito destinale del cristianesimo. Il nichilismo è l’inverarsi del cristianesimo.
L’evento chiave della storia dell’Essere non si situa alla sua origine, nella sottomissione dell’aletheia al giogo dell’idea (ivi, p. 911) ma nell’abbandono dell’idea di principio come struttura eterna immobile, fondamento inconcusso: nell’idea di Dio che si incarna e si fa uomo. Non si tratta perciò di ridurre il cristianesimo a una tavola dei valori, ma di vedere in esso l’evento che ha dato vita alla secolarizzazione stessa, che in tal modo finisce per identificarsi col processo kenotico. Vattimo individua così dei tratti cristiani in Nietzsche e Heidegger, che la sua ontologia kenotica pone in risalto: l’ansia di redenzione dell’oltreuomo nicciano; l’evento come presa di distanza dall’essere pensato come fondamento eterno o come datità positiva, come differenza ontologica.
Dal lato della teologia. Il sottotitolo di Credere di credere recita: «È possibile essere cristiani nonostante la Chiesa?». In alcune delle pagine più intime del libro, Vattimo descrive i motivi principali del suo allontanamento dalla Chiesa: la posizione politica dei cattolici, il sostegno alle guerre cosiddette giuste, ma soprattutto il tentativo di costruirsi una vita affettiva e sessuale libera dalla dimensione nevrotica dello schema di peccato e confessione, a cui la Chiesa condanna l’omosessualità. Sono però elementi contingenti, che Vattimo nel 1996 ancora ritrovava nel pontificato di Giovanni Paolo II, a differenza del pontificato di Francesco, che il filosofo ha sostenuto con partecipazione. La questione semmai è se il paradigma della kenosi e dell’ontologia debole possa fare da sfondo a una teologia dogmatica non più improntata al tomismo, non più improntata a metafisiche “naturalistiche” o, ancora più alla radice, se sia corretto parlare di teologia dogmatica in tale orizzonte. Moltmann, principale sostenitore di una teologia kenotica, ci spiega come mai tale paradigma fu abbandonato dopo Paolo: «Per salvaguardare l’immutabilità di Dio, la cristologia successiva sostituirà l’idea della chenosi con quella dell’assunzione della natura umana da parte del Logos eterno» (Moltmann 1998, p. 333). Il rischio teologico insito nella prospettiva kenotica è quello difatti di coinvolgere l’intero Dio, così da rendere indistinguibile il processo di “svuotamento” in Dio dal movimento della Storia. E a quel punto, o si ritorna al dispositivo concettuale dell’hegelismo, in cui il divino si risolve completamente nella mediazione del logos, o si immagina, sulla traccia del tardo Schelling, una forma di onnipossibilità che precede Dio stesso, per cui la croce sarebbe il punto estremo di tensione tra annientamento e vita vera, e quindi nulla sarebbe deciso fino alla fine dei tempi.
Non è il dramma teogonico che si celerebbe dietro il Dio kenotico a interessare però Vattimo. È la risonanza etico-politica che esso apre. Quella di un pensiero debole che si fa pensiero dei deboli. È la formula quanto mai suggestiva che Vattimo adopera in Della Realtà (2012, pp. 208-2016). e che pare segnare l’attuale pontificato, che in consonanza con la declinazione etico-politica di Credere di credere privilegia la dimensione pastorale rispetto a quella di custode dei dogmi, pur continuando a considerare l’espressione “pensiero debole” come sinonimo di relativismo (Francesco 2013).
La stagione della koinè ermeneutica in filosofia sembra essere alle spalle, avendo in questi anni mostrato i suoi limiti proprio sul piano etico-politico, quel piano che Vattimo considera il motivo che lo ha spinto alla ricerca di un pensiero senza fondamento. Dalla post-verità alle teorie del complotto alla disinformazione scientifica, il presente ci ha posto di fronte alle difficoltà di una teoria dell’agire che si consideri “svincolata” da una fondazione teoretica, da un’idea di verità che ignori la datità del fatto. Senza la pretesa di poterci addentrare in un dibattito in fieri, il contraccolpo a quella stagione ermeneutica non si riduce a un ritorno alle cose stesse, ma muove verso un’indagine più articolata, e più capace di dialogare con le scienze, sul modo con il quale, al di là del linguaggio, noi esseri umani costruiamo il nostro abitare il mondo, a partire dalle possibilità che il mondo stesso predispone.
È però nel campo della vita del cristiano e della sua Chiesa che tale ontologia kenotica sembra produrre le domande più vertiginose. La Chiesa deve farsi anch’essa debole? E tale rinuncia avrebbe una qualche valenza escatologica? O deve continuare a esercitare la sua funzione katechontica, cercando di usare la propria forza per frenare il male, il proprio potere per proteggere appunto i deboli? Sono domande rimaste a margine in Vattimo, che hanno però attraversato questi ultimi anni, dal corpo sfinito di Giovanni Paolo II alla rinuncia al soglio pontificio di Benedetto XVI, e che hanno trovato spazio nell’immaginario del cinema italiano, su tutto nel grido di aiuto del cardinale Melville, appena eletto papa, in Habemus papam (2011).
Riferimenti bibliografici
Francesco, Meditazione mattutina nella Cappella della Domus Sanctae Marthae. Pensiero ibero, 29 novembre 2013.
R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano.
M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994.
Id., Fenomenologia della vita religiosa, Adelphi, Milano 2003.
F. Nietzsche, La volontà di potenza, Frammenti postumi ordinati da Peter Gast e Elisabeth Förster-Nietzsche, Bompiani, Milano 1992.
J. Moltmann, L’avvento di Dio. Escatologia cristiana, tr. it., Queriniana, Brescia 1998.
L. Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, Milano 1971.
Id., Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 1995.
G. Vattimo, Della Realtà. Fini della filosofia, Garzanti, Milano 2012.