Lo spazio urbano appare ogni giorno di più come il luogo privilegiato e il punto di ricaduta di una serie di trasformazioni, più o meno visibili, che ne stanno rapidamente alterando la fisionomia, le funzioni e il ventaglio di esperienze possibili. La metamorfosi della città – espressa da termini entrati nel discorso pubblico come gentrificazione, riqualificazione, smartificazione, rigenerazione – è però un fenomeno complesso, che investe il ruolo dell’urbano nelle sue dimensioni economiche, sociali, ecologiche e demografiche: tracciarne i limiti e le direzioni non può che essere faccenda altrettanto complessa e sfaccettata, tanto da dare vita negli ultimi anni a un ampio dibattito.

Se gran parte dell’ecologia politica urbana (Heynen, Kaika, Swyngedouw 2005) ha enfatizzato negli ultimi anni la concezione della città come organismo, e ne ha dunque analizzato gli elementi metabolici, i nessi d’equilibrio e squilibrio interni, d’altra parte, diversi approcci – di orientamento più spiccatamente marxista – hanno preferito inserire lo spazio urbano in una geografia economica più ampia. Per questi studiosi (ad esempio: Harvey 2018) la metamorfosi avverrebbe non tanto per risolvere o riorganizzare determinati elementi interni alla città, quanto per farle assumere una nuova funzione nel contesto in cui essa si inserisce, lungo le catene della produzione e del consumo – dunque in quanto integrata all’interno di un’infrastruttura globale che la collega funzionalmente a spazi radicalmente differenti.

Tema ricorrente nella recente letteratura critica sul tema della città, il contesto urbano è presentato come uno spazio profondamente strutturato dalle operazioni neoliberali di controllo, consumo ed estrazione, tali che verrebbero a costituire un “dispositivo neoliberale della città”. In questo modo, la città appare nel suo volto disincantato, pura espressione di dinamiche capitalistiche e di governo perfettamente integrate sotto lo stesso tetto. Una simile pervasività del dispositivo espone però la stessa possibilità critica a una doppia difficoltà: da una parte rende problematica la messa in luce di una simile “atmosfera” generalizzata, la cui sovrapposizione quasi naturale con la materialità dello spazio urbano complica una visione diretta del fenomeno; dall’altra rischia di rendere il soggetto che la abita incapace di produrre forme di contrasto a una simile logica, vanificando l’esigenza di trovare vie di fuga all’onnipresenza dell’atmosfera neoliberale.

Il volume collettaneo Urban Forms of Life. Per una critica delle forme di vita urbane si aggiunge a questa letteratura critica svincolandosi tanto da quell’apparente alternativa metodologica quanto da un simile “pessimismo del dispositivo”, e a partire da un’affermazione fondamentale: non è possibile comprendere la città senza partire dall’elemento soggettivo che la abita, senza partire insomma dalle forme concrete che la vita assume laddove è immersa nell’elemento urbano. Nello specifico, rifiutando tanto un riduzionismo biologico o trascendentale della vita, quanto una supposta medietà dell’esperienza urbana e l’omogenizzazione della vita descrivibile nella categoria di “cittadino”, i contributi consentono di mettere in mostra tutte quelle soggettività e i gruppi sociali marginali che permettono di complicare la categoria astratta di “cittadino” (risulta in questo molto interessante la categoria di neo-plebe sviluppata da Matteo Vegetti nell’ultimo saggio), e di espandere l’analisi alle “forme di vita” che materialmente popolano lo spazio urbano, portando con sé abitudini, gesti, concezioni e aspirazioni radicalmente differenti tra loro.

Il primo e grande pregio di Urban Forms of Life consiste dunque nel fatto che, ponendosi l’obiettivo di osservare la riorganizzazione dello spazio della città a partire dall’impatto che questa ha sulle concrete forme di vita urbane, permette di mostrare le operazioni neoliberali proprio nel punto della loro potenziale rottura. La loro materializzazione sul corpo delle specifiche forme di vita urbane è al contempo la loro emersione evidente e la possibilità della loro contestazione. Il soggetto, in quanto primo oggetto delle operazioni neoliberali, si rivela essere al contempo il primo rilevatore di queste operazioni, e il primo potenziale attore del contrasto. A partire da esso, dalle sue esperienze, dalle sue percezioni, dalle sue abitudini, è possibile impostare da dentro una nuova indagine sulla città.

Sintomaticamente, il volume si apre con una vista sulla stazione di Roma Termini. In questo modo, il dialogo tra Natalia Agati e Francesco Careri individua da subito un luogo nevralgico che permette di osservare, in forma cristallizzata, i vettori di trasformazione che investono la città e le contraddizioni che la attraversano. Nella stazione produzione dello spazio, formazione dei soggetti, deviazione dell’attenzione, reinvenzione delle pratiche di disciplinamento e controllo convivono in strettissima connessione. Ciononostante, l’oggetto del contributo non si risolve in una disamina dei meccanismi interni allo spazio della stazione. Piuttosto, esso va ad osservare i margini dello spettacolo scintillante, dell’impianto securitario che la attraversa, e fa emergere gli scarti di Termini – i senzatetto o anche i passanti obbligati ad abitare, per una o più sere, quello stesso luogo inospitale – in un modo non puramente negativo ma, come nel caso di Termini TV, come i protagonisti di una riappropriazione temporanea, di quegli stessi spazi, attraverso la creazione artistica di atmosfere magiche, spazi ludici e comunitari che sappiano riempire nuovamente di senso – reincantare – quel luogo di transito altrimenti accessibile solo ai consumatori della città.

Il progetto di popolare la città di tali eterotopie concrete nei luoghi del disincanto – che richiama, talvolta esplicitamente, le ambizioni delle derive situazioniste, degli studi di Lefebvre sulla produzione dello spazio e le analisi di Walter Benjamin sui Passages parigini –, si incrocia, nella varietà dei saggi che compone il volume, con l’esigenza e l’invito a ridirezionare lo sguardo che, immerso nella città, la osserva dal suo interno. Come osserva Francesca Natale, lo spazio urbano è infatti segnato a ogni dove da dispositivi ottici che suggeriscono costantemente traiettorie attenzionali prestabilite, da continue distrazioni, dalla pervasività di primi piani spettacolari che lasciano in ombra un sottofondo dove si nascondono le operazioni che organizzano l’esperienza stessa della città, e ne dirigono i fini e le possibilità.

Diventa dunque fondamentale fare emergere ciò che avviene al di sotto della soglia di percezione, elaborare l’elemento urbano che si nasconde nella nostra esperienza passiva attraverso nuove fonti di spontaneità e di uso critico della città (tematizzate, tra gli altri, da Andrea D’Ammando); in quest’ottica, i contributi cercano di identificare pratiche di riappropriazione dello spazio urbano che permettano di realizzare questa emersione percettiva dei vettori di controllo, di mercificazione e svuotamento di senso collettivo che attraversano la città (messi bene in luce da Giacomo-Maria Salerno relativamente al caso di Venezia), e contemporaneamente una loro radicale, seppur parziale e puntuale liberazione: la spontaneità della pratica artistica, emancipata dalle sue perversioni spettacolarizzanti e consumistiche (tema centrale nel contributo di Giovanni Attili), risulta in questo senso un esempio di come riattivare circuiti attenzionali, produrre spazi realmente comunitari e istituire pratiche liberatorie capaci di reincantare lo spazio urbano.

Interrogando il rapporto tra gli spazi urbani e le forme di vita che li abitano, il volume intende dunque ritagliarsi uno spazio d’indagine trans-disciplinare, che non si riduce a uno studio “geografico” tantomeno “urbanistico” degli ambienti cittadini, né a una mera “psicologia” degli abitanti delle città – quanto a una più complessa “psico-geografia” che sappia far emergere e tenere assieme, nelle loro relazioni, le trasformazioni dello spazio urbano e i modi di percepire, attraversare e abitare quegli stessi spazi. Infondo, come preannuncia Stefano Velotti nell’introduzione, esso è un testo di filosofia: è infatti nell’interrogazione filosofica sulle possibilità delle forme di vita, «sul senso dell’esperienza che tali forme promuovono o inibiscono» nell’ambiente urbano, che i contributi di architetti, artisti, studiosi dei media digitali e urbanisti si incontrano nel rivendicare un’altra traiettoria per la città.

In questo modo, il volume permette di far emergere la città come “spazio euristico” (Sassen 2012) e, al contempo, come territorio di lotta. Qui vi appaiono le diverse figure caratteristiche del nostro tempo: il turista, il senzatetto, l’artista, il videogamer immerso nella realtà aumentata; che sostituiscono quelle altre figure, splendidamente descritte da Walter Benjamin nei Passages: il flaneur, la prostituta, lo straccivendolo. Tutti questi personaggi, affaccendati nelle loro diverse attività di attraversare, abitare, fotografare, consumare, reincantare lo spazio urbano, si cristallizzano come immagini esemplificative di un territorio non pacificato, scosso tanto dalle trasformazioni neoliberali e securitarie quanto dal desiderio opposto di produrre nuovi usi liberi, creativi e giocosi per l’ambiente urbano.

Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, I «passages» di Parigi, Einaudi, Torino 2010.
D. Harvey, Geografia del dominio. Capitalismo e produzione dello spazio, ombre corte, Verona 2018.
N. Heynen, M. Kaika, E. Swyngedouw, a cura di, In the Nature of Cities. Urban Political Ecologu and the Politics of Urban Metabolism, Routledge, Londra 2005.
H. Lefebvre, La produzione dello spazio, PGreco, Milano 2018.
S. Sassen, Cities: A Window into Larger and Smaller Worlds, «European Educational Research Journal», 11, 1, 2012.

Andrea D’Ammando, Tommaso Morawski e Stefano Velotti, a cura di, Urban Forms of Life. Per una critica delle forme di vita urbane, Quodlibet, Macerata 2023.

Tags     città, forme di vita, spazio
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