Feticismo dell’icona, decostruzione del dispositivo, rappresentazione del movimento anarchico. Sono questi gli elementi che si palesano fin dalle primissime inquadrature di Unrest, film di Cyril Schäublin del 2022, vincitore del Premio come Miglior regista alla Berlinale dello scorso anno nella sezione Encounters, dedicata ai registi indipendenti più audaci e brillanti. Ed è quello che dimostra di essere Schäublin non temendo di mostrare senza filtri la struttura tematica e i binari iconografici entro cui rappresentare la sua personale manifestazione fenomenologica del movimento anarchico svizzero di fine Ottocento.
Quattro nobildonne sovietiche conversano amabilmente di un certo Pyotr, divenuto esponente del movimento anarchico in Svizzera, definendolo avventato e probabilmente non pienamente cosciente delle proprie azioni: dopotutto sembra essersi innamorato dell’immagine di una donna che non ha mai conosciuto, una di quelle icone fotografiche che vengono vendute a pochi cent. Si scopre subito dopo che le stesse donne sono parte di una messa in quadro fotografica, pars pro toto di una costruzione mediologica incentrata sull’esposizione del dispositivo e sulla definizione di un’estetica del reale resa attraverso la fotografia. Le prime inquadrature di Unrest sembrano dunque restituire l’intenzionalità metaforica soggiacente il piano narrativo del film: la rappresentazione di un frammento temporale e spaziale di manifestazioni anarchiche in Svizzera è mediata dal dispositivo fotografico esposto e intradiegetico, incontrovertibile evidenza di realtà sociale e testimoniale.
In una fabbrica di orologi della piccola comunità di Saint-Imier un gruppo di anarchici è impiegato nella produzione e nell’assemblaggio delle diverse componenti, mentre sullo sfondo la “Storia” procede nelle sue manifestazioni di progresso e legittimazione del lavoro operaio. Decidere di rappresentare le lotte anarchiche per un’equa giustizia sociale attraverso il dispositivo fotografico – e di riflesso filmico – significa considerarlo come mezzo democratico di rappresentazione ed espressione meccanica della modernità, una posizione che spesso ha generato violente critiche, per via di una capacità così straordinariamente mimetica da portare a percepirla come un’amplificazione delle problematiche derivanti dalla modernità stessa (Linfield 2010, p. 27). La fotografia è il mezzo sociale per eccellenza, medium prediletto dal costruttivismo sovietico come rappresentazione della realtà e strumento di impegno attivo nella veicolazione di contenuti, ideologie, messaggi.
La visione “monopuntuale” che caratterizza molte inquadrature, e la conseguente messa in quadro di campi fissi, si trasformano nella rappresentazione di cartoline profilmiche nel momento in cui la cornice finzionale si infrange di fronte alla composizione diegetica delle inquadrature fotografiche, che mutano totalmente la leggibilità e la comprensione della narrazione stessa. I soggetti umani sconfinano nella scena che si deve andare a fotografare, inconsapevoli fantasmi che si aggirano in uno spazio che pensano, così come lo spettatore, essere libero da ogni imposizione mediale e tecnologica, per essere poi ammoniti dagli operatori che li intimano di spostarsi il prima possibile per non compromettere la resa dell’immagine finale. Il mezzo fotografico viene contestualizzato in ogni scena come un elemento della narrazione, mostrando simbolicamente come il regista voglia rappresentare l’impegno sociale (e socialista) degli anarchici attraverso quello che può essere considerato il mezzo tecnologico più idoneo a registrare la mimesi del reale.
Cyril Schäublin sembra connaturare nella messa in scena il concetto barthesiano secondo cui «la Fotografia non dice (per forza) ciò che non è più, ma soltanto e sicuramente ciò che è stato […] l’essenza della Fotografia è di ratificare ciò che essa ritrae» (Barthes 1980, p. 86). L’evidenza della realtà e della specificità del dato visivo si impone come innegabile testimonianza, come sintomo di una posizionalità empirica della figura umana nello spazio. Una delle donne comparse nelle prime inquadrature, descrivendo le proprie congetture riguardo il movimento anarchico a cui ha preso parte Pyotr Kropotkin, definisce il concetto di Nazione per gli anarchici come “un luogo in cui viviamo insieme in un dato momento”, come una Posa che cristallizza la realtà in uno spazio e in un tempo definiti nella contingenza del dispositivo fotografico (Barthes 1980).
La figura del giovane geografo anarchico, realmente esistito e residente per un certo periodo proprio in Svizzera, si carica nella rappresentazione filmica in Unrest di una veridicità ulteriore attraverso i continui rimandi al dispositivo e alla sua riproducibilità tecnica, all’esposizione dei meccanismi soggiacenti la messa in scena e al continuo riferimento alla costruzione materica dell’immagine fotografica. Questa si impone come Verità, non vi può essere alcun dubbio che ciò che sia stato impressionato sulla pellicola non sia esistito realmente: la fotografia è prova schiacciante di appartenenza al movimento anarchico, motivo di licenziamento per alcuni dipendenti della fabbrica rappresentati in un ritratto scattato durante una festa comunitaria.
La mediazione dell’obiettivo e della rappresentazione finzionale è sintomatica di scelte linguistiche sottili, precise nella loro manifestazione estetica e che si palesano soprattutto nella scelta di utilizzare nelle riprese dei dettagli degli ingranaggi una falsa soggettiva mascherata attraverso uno squilibrio tra un punto di vista sbilanciato e l’angolazione di ripresa: nel mostrare il dettaglio, la soggettiva dovrebbe corrispondere con l’amplificazione del senso della vista delle lavoratrici attraverso la protesi oculare rappresentata dalla lente di ingrandimento, mentre l’angolo di ripresa si palesa nettamente contrario al punto di vista del soggetto, esponendo l’obiettivo del dispositivo filmico e scongiurando ogni tipo di immedesimazione puntuale con gli anarchici. La rappresentazione del reale è dunque atona, si mantiene distante e ancorata semplicemente nella registrazione fattuale del reale, senza incedere troppo nella trasmissione empatica di sensi e sensazioni interiori. I volti rappresentati sono quasi sempre mediati dall’obiettivo fotografico o cristallizzati nelle pose delle fotografie che vengono vendute fuori dalla fabbrica.
C’è nella scelta registica una volontà di scandire il tempo della storia attraverso gli ingranaggi degli orologi, che sono poi simili a quelli meccanici del dispositivo fotografico: quest’ultimo è, però, duplicemente chimico, caratterizzato da una reazione alchemica che quasi manca a tutto il film e che sembra palesarsi solo verso la fine. Pyotr, figura reale, e Josephine, protagonista femminile e personaggio finzionale, si incontrano e iniziano a camminare insieme, convergendo nelle intenzioni ideologiche e nella sintonia personale. Due anime diverse ma affini si mescolano, unendo le loro nature equidistanti e definendo solo nell’ultima inquadratura, attraverso la loro sparizione quasi magica dalla scena, la scomparsa del dispositivo: il film è terminato, ora la Storia può proseguire inesorabilmente scandita dai rintocchi di un orologio lasciato pendere dalle fronde di un albero.
Riferimenti bibliografici
R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 2003.
S. Linfield, La luce crudele. Fotografia e violenza politica, Contrasto, Roma 2013.
Unrest. Regia: Cyril Schäublin; sceneggiatura: Cyril Schäublin; fotografia: Silvan Hillmann; montaggio: Cyril Schäublin; interpreti: Clara Gostynski, Alexei Evstratov, Monika Stalder, Hélio Thiémard; produzione: Seeland Filmproduktion GmbH, SRF – Schweizer Radio und Fernsehen; distribuzione: Filmcoopi, Shellac Distribution; origine: Svizzera; durata: 93′; anno: 2022.