La lettura di un libro come Una visita al Bates Motel di Guido Vitiello può probabilmente suscitare nel lettore alcune domande, e forse una prima di tutte le altre, specie per quei lettori e lettrici appassionati della settima arte: ma si tratta di un libro di critica cinematografica? Come suggerisce il titolo del libro, quel “Bates” è il Bates che troviamo come personaggio in un classico di Alfred Hitchcock, Psycho (1960). Dunque, un oggetto culturale che non manca di una corposa bibliografia. Nel suo lavoro Vitiello opta per una scelta, se si vuole, particolare: attraverso una sorta di perizia filologica applicata alla messa in scena – qualcosa che ha la sua giustificazione d’essere negli elementi scenografici del film stesso – ci presenta una “lettura” del film che sembra trasfigurare il suo stesso argomento.

Smontaggi

Dato l’ambito, come pars destruens, si potrebbe parlare di smontaggio. E quindi: che cosa il progetto di Vitiello smonterebbe? In primo luogo, ci sarebbero determinate aspettative del lettore, quantomeno relativamente all’approccio stilistico e al vocabolario linguistico. Nell’affrontare Psycho, la strategia dell’autore non sembra essere quella di indurre una distanza – critica – che possa permettere al lettore di contemplare e seguire il discorso proposto, per poi accettarlo o magari rifiutarlo. Al contrario, Vitiello presenta una scrittura simile ad una sorta di puzzle concettuale, dove la lettura è l’azione necessaria per completare il quadro: tra passaggi e toni fortemente narrativi; digressioni ed elucubrazioni dotte; squarci di mitologia con accenni di antropologia.

A questo, come anticipato, va aggiunto un registro lessicale che fa “suonare” il testo in modo anacronistico rispetto alla voce “media” che si legge nell’ambito del campo in cui, volenti o nolenti, dobbiamo ricondurre questo libro, cioè quello degli studi cinematografici. A proposito di questo “tono”, spesso tra lo straniante e l’ironico, basterebbe l’incipit di un capitolo: «Pochi anni prima del Concilio Vaticano II, i critici dei “Cahiers du Cinéma” avevano fatto scialo di sottigliezze teologiche in una disputa a cui uno scolastico medioevale avrebbe potuto mettere nome Utrum Alfred Hitchcock sit metaphysicus» (Vitiello 2019, p. 83).

In secondo luogo, nel parlare di smontaggio, non si può non focalizzare l’attenzione sulla struttura. Come già dice il titolo, l’autore ci presenta una sua “rivisitazione” del classico del regista britannico. Si tratta quindi di una lettura del film sotto la forma di un percorso che, dopo un preludio, va direttamente dentro gli spazi-luoghi di Psycho, quindi «Bates Motel» e «Bates Mansion». In questo attraversamento, l’autore ci fa soffermare su determinate stanze coniugando minuzia ed inventiva. Il suo modo di conferire una importanza significativa a particolari aspetti scenografici smonta certi rapporti di forza che si è soliti rispettare nello studio di un film.

Un esempio può essere quello relativo al salotto del motel, in cui Vitiello – a partire da una notazione storicamente precisa (un appunto manoscritto di Hitchcock) – crea praticamente un collegamento tra quella stanza, «the room of the Birds», e la funzione della Wunderkammer. Tutto questo in relazione al destino della povera malcapitata Marion, che «non sospetta che ben prima di incrociare le vicende della curiosità scientifica la Wunderkammer nasce dal reliquario; che la più antica collezione è collezione di morti; che le progenitrici di quelle raccolte ricche e strane erano state le camere sanctae delle chiese gotiche» (ivi, p. 71). Nel libro, di momenti del genere ce ne sono tantissimi. Questa scelta di procedere è forse una spia anche di qualcos’altro. Una insistenza sul dettaglio un poco wagneriana. O, parafrasando Werner Herzog, una filologia dell’inutile.

Rimontaggi

Se nel particolare lo sguardo di Vitello tende ad essere quello di un osservatore che, provvisto di una lente di ingrandimento un pò truccata e un pò speciale, riesce a deformare la scena amplificando dettagli nascosti nel décor del film, scoprendoci dentro “cose mai viste” (mai dette?), nell’universale il suo progetto sembra seguire una linea guida che, in un certo senso, pone una equazione tra attività critica e quella creativa. Della serie: Vitiello sembra giocare – nel senso migliore del termine – a ricostruire quanto rimarrebbe non espresso dentro il film, alla maniera di “una appropriazione debita” (debita perché tramite comunque filologia).

Ma questo, in fondo, non è niente di nuovo. È, se si vuole, la “tradizione” della critica di certi grandi autori irregolari in diverse arti, un “mescolare le carte” dei generi come criterio per dedurre qualcosa di interessante – si legga impensato – in merito a quello di cui si scrive. Allora, forzando le cose ma non troppo, si potrebbe dire: Vitiello sembra leggere il film di Hitchcock come se fosse una installazione d’arte e, da qui, dà il la ad una serie di aperture verso stanze raramente immaginate dal visitatore-spettatore, apparentemente abituato a riconoscere i luoghi di Psycho.

Andando nello specifico, il libro di Vitiello ha una struttura che prende in prestito qualcosa dal passato diciamo remoto, dal momento che il nostro divide il percorso espositivo in due parti che chiama «Misteri Minori. Bates Motel» e «Misteri Maggiori. Bates Mansion». Qui, oltre al rimando al mondo della letteratura e del racconto nero o macabro, la parola mistero nelle sue variazioni è un chiaro riferimento al mondo esoterico dell’antichità occidentale. Quindi una via iniziatica per pochi, che si connota di tratti potenzialmente pericolosi nella sua progressione. Si potrebbe dire che è nella contaminazione tra questi due registri che la messa in scena di Vitiello ha la sua ragion d’essere. Uno sembra spiegare l’altro, e viceversa. Poi, nel registro associato all’antichità possiamo collegare tutti quei riferimenti filosofici, pittorici, storico-culturali che l’autore usa.

Per andare direttamente sul testo, si può citare come un buon esempio la parte iniziale del capitolo intitolato «Una luce da Eleusi» (il titolo è già di per sé stesso eloquente). Qui, l’oggetto del discorso è un quadro del pittore Bisson, Primavera, presente nella messa in scena del film ma che Vitiello collega alla situazione di cui scrive – la morte nel film del detective Arbogast – in modo assai intrigante. E cioè, ne giustifica iconicamente la presenza nella sequenza del film (è l’ultima immagine vista dal malcapitato prima di morire) attraverso un excursus che va da Omero fino a Dante Gabriel Rossetti, sotto il segno di una continuità iconografica tra dee elusine e dame provenzali. Un modo per immaginare come «da quel dipinto allegorico, come sbalzato dalla tela, ha spiccato il volo il rapace che si è avventato su Arbogast». Ma anche «per quali vie l’antica madre», cioè la dea della primavera, «era finita a vagare nelle stanze di una casa vittoriana nell’Arizona di metà Novecento» (ivi, p. 152).

Alla fine dei “misteri”, Vitiello ci racconta della storia del Bates Motel dopo il film. Qui è interessante notare il titolo del capitolo. «Il crollo della casa dei Bates». Si tratta chiaramente di un calco da un grande poeta moderno del mistero, E. A. Poe. Continuando ad immaginare il libro come una installazione, l’integrazione di questo momento finale, alla luce del sole, è un pò come includere lo smantellamento di quanto precedentemente elaborato come elemento necessario all’operazione, giusta fine dello spettacolo. Oppure, a legger tra le righe, si potrebbe pensare a questa scelta come ad un gesto che connota tutto il discorso di Vitiello in una certa maniera, cioè da fantasia letteraria. Dall’installazione alla letteratura: un passaggio che, se tale, non farebbe altro che rafforzare l’ipotesi di trovarsi alle prese con una appropriazione critica in grado di rendere inutile una sua definizione di copia platonica dell’originale.

Riferimenti bibliografici
G. Vitiello, Una visita al Bates Motel, Adelphi, Milano 2019.

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