Gilles Deleuze dichiarò nell’Abecedario che l’animalità, o più propriamente il divenire-animale, è la condizione dello scrittore che spinge «il linguaggio al limite […] che separa il linguaggio da qualcosa come un pigolio doloroso» (Deleuze 2014). Lo scrittore si trova, allora, esposto a un a priori letterario che abita la scrittura, nel dover affrontare il dilemma delle due soglie della poesia, una che trapassa in ciò che precede il linguaggio e l’altra in ciò che lo succede. Tra le due, «tutti riceviamo un dono. Poi, non ricordiamo più né da chi né che sia. Soltanto, ne conserviamo – pungente e senza condono – la spina della nostalgia» (Caproni 1998, p. 768). Assieme al linguaggio ordinario, quello con il quale quotidianamente parliamo e, soprattutto, scriviamo, dimentichi della sua presenza regolatrice, infatti, ospitiamo anche l’affetto di una lingua inarticolata. Il linguaggio è così il coltello che incide la carne del mondo, operando le distinzioni tra gli enti, ma è anche, per altro verso, nel momento del pungolamento poetico delle superfici dolenti come se fosse una spina, esso stesso nient’altro che un modo d’essere di un mondo mediano e comune, un mondo sensibile.
Se dunque il problema di Agamben è sempre stato quello posto dal linguaggio (Cfr. Salzani 2015), il suo ultimo libro, Quel che ho visto, udito, appreso… (Einaudi 2022), non poteva che essere un tentativo di portare nuovamente la parola in limine a se stessa, o un modo per far toccare i lembi del sensibile nella lingua. Una soglia, questa, che è una piccola morte, un’interruzione, una grammatica che escresce, come un liquido che monta fino a rendersi irriconoscibile nella materia. Morte sì, ma piccola appunto, perché non c’è nulla di finale in questa parola poetica che attraversa il testo agambeniano. Al contrario, ciò che sorge dalla lingua nel suo farsi liminale è proprio una certa forma di penultimità (Cfr. Deleuze 2015), ossia un mantenere aperto lo spazio possibile di questo mondo – al di qua di ogni al di là – in una parola che è in grado essa stessa di farsi sensibile, non semplice matrice di registrazione per un’astratta comunicazione. Come ha scritto lo stesso Agamben:
Se riprendiamo, a questo punto, l’immagine di Wittgenstein della mosca imprigionata nel bicchiere, potremmo dire che il pensiero contemporaneo ha finito col riconoscere l’inevitabilità, per la mosca, del bicchiere in cui è prigioniera. [...] Se è vero, infatti, che la mosca deve innanzitutto cominciare col vedere il bicchiere dentro cui è chiusa, che cosa può significare una tale visione? Che cosa significa vedere ed esporre i limiti del linguaggio? È possibile un discorso che, senza essere un metalinguaggio né sprofondare nell’indicibile, dica il linguaggio stesso e ne esponga i limiti? (Agamben 2020, p. 34).
La funzione poetica della lingua, in questo senso, nell’esporre i limiti del linguaggio, facendolo aumentare di volume, gonfiandolo quantitativamente, magari nei suoi aspetti grammatici, fino a giungere alla trasformazione qualitativa, assieme al possibile che mostra, corre sempre anche un rischio fatale: il rovesciare l’immanenza sensibile della lingua in una trascendenza originaria o futura. Per rimanere nella metafora della mosca e del bicchiere, non si deve credere che la fuga della mosca sia una fuga dalla trasparenza del vetro, né che la mosca sia stata rinchiusa nel bicchiere in un certo momento nel passato. Al contrario, nel bicchiere nulla si modifica, nessuno vi entra e nessuno ne esce, nessuna crepa si apre, se non quella che vede come già sempre lì un’opacità fino ad allora irriconosciuta – e per questo, a volte, è in grado di compiere una metamorfosi del vetro, fino a trasformarlo in materiale liquefatto. Nel bicchiere non c’è spazio alcuno per una nostalgia originaria di libertà, né per un’utopia d’emancipazione dal mondo, perché qui non c’è prima né, tantomeno, dopo.
Il linguaggio, essendo ciò che divide, è anche ciò che pone tanto il mito del “selvaggio” privo di lingua, in comunione col mondo, quanto il racconto del paradiso di colui che, infine o nostalgicamente, è capace di spogliarsi di ogni idioma. Nella sua forma poetica, tuttavia, il linguaggio non è più solamente nomoteta, ma si presenta come una cosa nel mondo tra le altre. Ed è questo tra, questo spazio nuovo, ma sempre già qui, aperto in limine al mondo umano che abitiamo, a rappresentare la potenza del pensiero agambeniano sul linguaggio. Una potenza che – come già si scriveva – è sempre esposta al rischio della nostalgia, che va però contemplato e digerito, non semplicemente fuggito, come si farebbe con un idolo della mente. Si pensi all’ultima sezione del testo, Quel che non ho visto, udito, appreso…, in cui la negazione si aggiunge al titolo del libro, in cui è scritto:
Molti anni fa mia madre mi diede da leggere un mio scritto infantile [...]. Il foglio conteneva la descrizione puntuale di quello che mi apparve allora con chiarezza costituire il centro segreto del mio pensiero. Come aveva potuto la mano esitante di un bambino di otto o nove anni fissare con tanta precisione il nodo più intimo e involuto di cui tutti i miei – i suoi – libri futuri non rappresentavano che il lento, faticoso, svolgimento? [...] Come se al centro di tutto quello che ho provato a vivere e a scrivere ci fosse un istante, anche solo un quarto di secondo, perfettamente vuoto, perfettamente invivibile (Agamben 2022, p. 65).
Non è importante qui riconoscere la verità del racconto, se questo scritto infantile sia esistito o meno matarialmente nelle mani di Agamben o della madre. Al contrario, si tratta di analizzarne il concetto, questo sì in concreto, per il quale la nostalgia invocata, stabilendo un legame con qualcosa come un centro involuto, interpella il mito dell’originaria soluzione nel mondo, che, in quanto tale, non ha nulla a che spartire con la vita.
Siamo allora di fronte al tentativo di realizzare una morte piena, al di là di ogni piccola, penultima, morte nella sua liminalità? Tutt’altro, ed è Agamben stesso a sconfessarci, quando poche righe più avanti si chiede: «Ma è possibile – e a che prezzo – per un autore cercare di afferrare il proprio non detto?» (ivi, p. 67). Il prezzo da pagare, sembra suggerire, è un tributo al pensiero proprietario, che ha così la pretesa di riempire un vuoto d’origine del quale solamente si può recare – in qualche modo, fallendo quasi certamente la presa – testimonianza.
Ciò che io cercavo è questo vuoto, questo lacunoso contatto fra complicazione e sprezzatura, esposizione e abisso, penombra e splendore, la dove il segreto si mostra in una chiarità così tersa, che diventa semplice e impenetrabile come un indovinello infantile o una filastrocca. Qui era il vuoto centrale attorno a cui si era andato involgendo il mio pensiero, la beata, invivibile lacuna che fin dall’inizio, scrivendo, non potevo che lasciare informulata (ivi, p. 70).
Siamo allora di fronte al linguaggio come a una «tersa chiarità», a un modo d’essere della vita, possibile per ognuno, che si presenta, ad un tratto, come il sensibile che è sempre stato sin dall’inizio. Non una operazione che divide le cose del mondo, o non solamente, ma un pungolo sulla superficie del palato, in grado di far vibrare il corpo intero con la carne del mondo nel suo essere medium. Vetro questo, opaco e trasparente, disgiunzione inclusiva, che si limita a indicare la via per una qualche forma di divenire.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, L’idea del linguaggio, in La potenza del pensiero, Neri Pozza, Vicenza 2020.
G. Agamben, Quel che ho visto, udito, appreso…, Einaudi, Torino 2022.
G. Caproni, Generalizzando, in L’opera in versi, a cura di L. Zuliani, Mondadori, Milano 1998.
G. Deleuze, Abecedario di Gilles Deleuze, DeriveApprodi, Roma 2014.
G. Deleuze, L’esausto, a cura di G. Bompiani, Nottetempo, Roma 2016.
C. Salzani, «Il linguaggio è il sovrano: Agamben e la politica del linguaggio», in Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio, n. 1 (2015).
Giorgio Agamben, Quel che ho visto, udito, appreso…, Einaudi, Torino 2022.