Il volo iniziale è come un rullo di tamburi in Whiplash (Chazelle, 2014). L’aereo da collaudare come una violenta batteria; i dettagli del volto umano che ne scandiscono il ritmo; gli effetti sonori che ne completano la partitura ossessiva. E poi: “sono a terra”. Una frase paradossale introduce il primo uomo sbarcato sulla Luna tracciando ogni traiettoria umana e immaginaria di questo anomalo biopic.
Perché la vita di Neil Armstrong è confinata in un eterno presente: il suo tempo è cristallizzato in formule matematiche che prefigurano le reazioni dei corpi nello spazio, quindi i suoi rapporti familiari diventano la dolorosa funzione di un algoritmo che “deve” anestetizzare ogni emozione. Ecco che se la moglie Janet rivendica coraggiosamente il tempo sulla Terra sfidando l’inammissibile dolore della perdita di una figlia, lui non può che distogliere lo sguardo e bramare lo spazio della Luna come unica dimensione per sfidare il buco nero del proprio trauma. Pertanto: nella dialettica tra queste due tensioni si dispiega un dispositivo narrativo e formale che si distacca anni luce da ogni verosimile riscrittura digitale post Gravity.
Il regista Damien Chazelle, insomma, configura un intero percorso di vita racchiuso in quell’impossibile sutura (cercata ossessivamente per tutto il film) tra il dettaglio degli occhi sgranati di Armstrong e l’ignoto spazio profondo che gli si para davanti. Ecco perché lo statuto iconico di Ryan Gosling diventa straordinariamente funzionale a questo progetto: l’eterno “Replicante bio-programmato” sa come esprimere emozioni solo con gli occhi spalancati (in perenne ricerca di qualcosa) e le mani sempre in movimento (che polarizzano un’umanità in tempesta).
E lì fuori? La vita di Neil è scandita dalla tecnica pesante – macchine da assemblare, bulloni da avvitare, abitacoli da ottimizzare – e da media analogici con cui interfacciarsi – l’onnipresente tv, i vinili, le musicassette – in una consapevole archeologia dei dispositivi che si spinge sino all’utilizzo del 35mm e del Super16 come supporto adatto a storicizzare quella esperienza di visione. Il primo evento mediatico globalizzato della storia se ne resta sorprendentemente in fuori campo: le latenze del cinema classico hollywoodiano – con i perturbanti echi della Guerra Fredda – si rifunzionalizzano in un dispositivo ideologico consapevolmente ambiguo – l’eccezionalismo americano e le nuove frontiere sovrastano ogni spinta sovversiva –, manifestando però molti livelli di lettura tutt’altro che banali se confrontati con l’attuale assetto geopolitico mondiale. L’ossessione per lo spazio libero da conquistare, infatti, viene rilanciata in maniera cristallina proprio in un momento storico in cui l’altra grande polarità dell’immaginario americano (la puritana chiusura delle frontiere) ne sta bilanciando la spinta.
Tiriamo le somme: dall’archeologia dei dispositivi all’archeologia degli immaginari. I segni di un’epoca vengono catalogati con puntigliosa precisione tanto da far apparire il film un trattato di storia del cinema riscritto ai tempi della piena disponibilità delle immagini del passato. Ma è ancora una volta l’odissea umana a reclamare il prim(issim)o piano: sfuggendo all’ennesimo funerale di un collega Armstrong si allontana sopraffatto dal dolore e trova pace inquadrando la Luna in silenzio. Chazelle configura in una singola inquadratura il crocevia immaginario che anima il suo film: puntare un obiettivo fotografico sulla Luna per mediare i propri demoni più intimi significa gettare le basi per miti (e contro-miti) popolari che sopravvivranno come memoria collettiva.
Sino ad arrivare ai quesiti più urgenti del nostro XXI secolo: le porte dell’Apollo 11 si aprono sul suolo lunare e fanno sbarcare una telecamera prima del primo uomo. I dispositivi di visione anticipano i suoi passi, ne premeditano le azioni, confondono ogni campo di percezione, ma si fermano alle soglie di un buco nero che rimane (fortunatamente) insondabile ri-figurando il tempo del ricordo. Neil Armostrong trova lassù una sutura impossibile al suo dolore facendoci identificare ancora una volta con un grande schermo bianco… quello della Luna, o forse quello del cinema.