La tesi della secolarizzazione, secondo la quale allo sviluppo tecnico-scientifico sarebbe dovuto succedere il tramonto delle religioni e delle “immagini del mondo” da esse promosse, si è rivelata errata. La fede e le comunità religiose hanno invece visto negli ultimi decenni un deciso rinvigorimento e una rinnovata adesione da parte anche delle giovani generazioni. A questo fenomeno, però, non si può reagire solamente esultando contro la sconfitta del nichilismo. Piuttosto, bisogna ricostruire attentamente il rapporto fede-sapere e riflettere su come esso possa aiutare la nostra comprensione della costellazione presente.

È questo l’itinerario che Jürgen Habermas intende percorrere in Auch eine Geschichte der Philosophie. La traduzione completa del testo, ad opera di Massimo De Pascale e di Giorgio Fazio nonché dei curatori Luca Corchia e Walter Privitera, sarà disponibile solamente alla fine del 2023. Per il momento sono disponibili in traduzione italiana le prime 500 pagine e già il titolo – Una storia della filosofia. Per una genealogia del pensiero postmetafisico – è indicativo del senso complessivo dell’opera. Da un lato, si tratta di raccogliere il risultato della secolarizzazione, dall’altro di riformulare e riattivare il senso della filosofia nel tempo della sua “disgregazione”. Il pensiero post-metafisico, se da un lato riconosce come impossibili quelle consolazioni e quelle garanzie di matrice mitico-religiosa, che confluivano nella trinità di bene bello e giusto, dall’altro riconosce l’ineludibilità, per il tempo presente, di un «pensiero generale».

Possiamo considerare Auch eine Geschichte der Philosophie come un arresto “teorico-metodologico” che il teorico della democrazia deliberativa e dell’etica del discorso ci suggerisce di intraprendere: bisogna interrogarsi, con una genealogia, sulla qualità di quelle risorse che, pur disperdendosi nel tempo presente, restano un sommovimento carsico dei nostri processi di apprendimento e lumeggiano a una normatività universale – carattere kantiano – al di là delle differenze contestuali. Sarebbe impossibile e sicuramente improprio cercare di riassumere in questa sede le analisi svolte nel primo volume di questa enorme impresa filosofica. Innanzitutto “storia della filosofia” è da intendere tanto nel senso del genitivo oggettivo quanto in quello del genitivo soggettivo. La storia della filosofia è altrettanto il rendiconto filosofico della storia considerata.

Ecco perché il primo volume è rivolto alla costellazione mitico-religiosa i cui riverberi giungono fino a noi: pensiero religioso e pensiero filosofico sono intrecciati in un rapporto di reciproco apprendimento, poiché entrambi sorgono e si trasformano attraverso quelle discrasie, inevitabili, tra una determinata forma di vita e gli ostacoli a cui essa va incontro. Il collegamento, seppur flebile, che tiene unito l’odierno pensiero post-metafisico – comunicativo e fallibilistico – e le convinzioni religiose nel loro aspetto sacrale e rituale è «il fondato timore di un appiattimento oggettivistico nell’autocomprensione dei soggetti socializzati e del loro mondo della vita. In altre parole, io temo la perdita di ogni prospettiva trascendente […]. Contro il vortice che tutto oggettivizza e livella – neutralizzando la forza spontanea di una trascendenza dall’interno – noi dobbiamo opporre resistenza» (Habermas 2022).

Al fine di una tale resistenza Habermas intende leggere e interpretare l’intero progresso umano alla luce della diade fede-sapere. Pur limitando, per ovvia ammissione di mancanza di competenze, la sua genealogia al mondo occidentale, ciò che Habermas intende ricostruire sono quei processi di apprendimento che, dagli albori della storia umana, hanno promosso e realizzato quella «autocomprensione normativa della modernità» di cui oggi assistiamo lo sgretolamento. Habermas ingaggia un confronto di quasi duemila pagine con queste “fonti” della normatività, la cui energia può ancora irrorare e corroborare la solidarietà tra gli esseri umani. La speranza di Habermas è che l’autoriflessione su queste fonti, l’autoriflessione che noi in quanto comunità di apprendimento svolgiamo sui nostri processi di socializzazione, può riattivare quei processi che vengono oggi “bloccati” dalle diverse spinte centrifughe.

Riprendendo le analisi di Karl Jaspers sull’età assiale, il primo volume di Auch eine Geschichte der Philosophie intende ricostruire la storia della normatività – morale, giuridica – a partire dalla nascita delle prime “immagini del mondo”: «A seguito della crescente differenziazione del sapere e dello sviluppo di una coscienza morale sempre più sensibile, l’autocomprensione mitologica delle grandi civiltà dovette elaborare dissonanze cognitive che non potevano più essere integrate nel suo quadro concettuale» (ivi). In uno stesso torno di tempo e senza che i vari protagonisti comunichino tra loro ci sono fenomeni analoghi che educano gli individui e i gruppi ad affrontare i problemi di ordine naturale e sociale, promuovendo l’integrazione da un lato e, dall’altro, la gestione delle dissonanze cognitive.

La stessa stabilità ricercata dagli ordinamenti sociali attraverso le obbligazioni, i divieti, le pratiche ancorate a uno sfondo religioso, impone la secolarizzazione di queste pratiche in strutture astratte per la coscienza. Il passaggio dal mythos al logos, la prima riflessione sui caratteri generali dell’essere, le basi delle religioni universali: tutto ciò, spiega Habermas, ha prodotto uno «sfondamento cognitivo» le cui risonanze sono auscultabili, attraverso il moderno, nello stesso pensiero post-metafisico. È sorprendente come il teorico dell’agire comunicativo e il promotore della svolta linguistica si concentri su quelle dimensioni – il sacro, il rito – che precedono la formazione del linguaggio e che in quel linguaggio vengono poi incorporati. In queste dimensioni comincia dunque la storia dell’apprendimento, produttiva della normatività stessa.

La diagnosi da cui parte Habermas è chiara: la crescita della complessità – tanto nel campo scientifico quanto in quello tecnico-economico – ingenera come risposta immediata una propensione al positivismo che, da parte sua, si preclude qualsiasi discorso complessivo. L’organizzazione umana del sapere, afferma Habermas, è sempre più «inafferrabile». La genealogia del rapporto fede-ragione, definito da Habermas «osmosi semantica», è la risposta che la filosofia può (deve?) dare a questa dinamica di sempre maggiore complessificazione. La filosofia, rischiarando nuovamente quel rischiaramento che l’aveva portata a separarsi dal discorso religioso, riconosce a quest’ultimo una matrice di senso proficua per quel processo di apprendimento caratterizzante la storia umana. Da ciò deriva l’attenzione rivolta al medioevo.

Scrive Habermas: «La mia generazione era ancora abituata a saltare come inessenziali i processi di apprendimento intercorsi nei mille anni in cui il discorso filosofico era quasi esclusivamente condotto sotto l’egida della Chiesa Cattolica Romana e della sua teologia, come se l’autorevole filosofia greca avesse trovato un serio proseguimento scientifico soltanto nel primo umanesimo moderno» (ivi). Invece, «facendomi guidare dal discorso su fede e sapere, cerco di mostrare come lungo questo percorso si sia verificata un’osmosi semantica tra la dottrina cristiana e la filosofia greca, da cui sono scaturiti da un lato la teologia e dall’altro i concetti fondamentali del pensiero filosofico moderno» (ivi). Lungi dall’essere un’epoca “oscura”, il medioevo è stato un grande laboratorio dei saperi in cui, da un lato, le credenze religione venivano tradotte in un sapere razionalmente comunicabile e dimostrabile (la filosofia) e, dall’altro, le verità metafisiche della tradizione greco-ellenistica si saldavano in senso “figurativo” nella dogmatica religiosa.

Il medioevo, detto in estrema sintesi, è il nucleo generativo del pensiero post-metafisico: il nominalismo di Guglielmo da Occam, infatti, non è altro che il tentativo di separare i concetti – umani, finiti – da una consistenza ontologica fissa e immutabile. Tale tentativo sarà poi proseguito in due diverse modalità: quella humeana intesa a decostruire i contenuti della religione e della metafisica, e quella kantiana, intesa a tradurre quegli stessi contenuti in argomenti razionali a cui attingere la normatività per la nostra vita concreta. Hume e Kant assumono un ruolo paradigmatico dinanzi alla separazione di fede e sapere: da un lato il necessitarismo scientistico di natura empiristica e positivistica; dall’altro il costruttivismo linguistico di natura intersoggettiva e comunicativa:

Le analisi di una parte poggiavano sempre su rappresentazioni e intenzioni individualistiche, singole disposizioni e comportamenti soggettivi, laddove le analisi della parte concorrente partivano dalle stesse questioni facendo però appello a simboli e regole intersoggettivamente condivise, linguaggi, pratiche, forme-di-vita e tradizioni, per poi soltanto alla fine analizzare, nei corrispondenti tipi di discorso,  le necessarie condizioni soggettive per poter venire a capo di quelle strutture e di quelle competenze (ivi).

Il processo di apprendimento, mai concluso, richiede una ulteriore rielaborazione, avviata dal pensiero post-metafisico: e cioè la traduzione del paradigma monologico e totalizzante della filosofia del soggetto in quello dialogico e fallibilista della filosofia dei soggetti. Il leitmotiv che segue tutto il testo resta un interrogativo a cui prestare attenzione. Può davvero la costellazione fede-sapere riuscire a risanare quei processi di apprendimento che vengono bloccati nel mondo attuale? La crisi della democrazia rappresentativa, la minaccia globale del conflitto atomico, la totale frammentazione della classe lavoratrice e lo smantellamento sistemico del welfare state possono davvero trovare un risanamento in quelle risorse religiose tradottesi nelle nostre pratiche sociali?

Jürgen Habermas, Una storia della filosofia. Per una genealogia del pensiero postmetafisico, Feltrinelli, Milano 2022.

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