Nel 2009, quando infuriava la protesta dell’Onda verde in Iran, l’immagine della giovane Neda, una manifestante colpita a morte negli scontri con le forze dell’ordine, fece il giro del mondo e diventò il simbolo del popolo iraniano (soprattutto giovani e donne) in lotta contro il regime. La fotografia del suo volto insanguinato fu oggetto di un infinito numero di rimediazioni in rete. Gli attivisti Sina e Peyman (i nomi sono di fantasia) realizzarono Persepolis 2.0, un rimontaggio della graphic novel di Marjane Satrapi Persepolis, per raccontare la storia dell’uccisione di Neda. Neda è un’icona della rivolta del 2009. Oggi la protesta monta di nuovo in Iran dopo l’uccisione di un’altra ragazza, Mahsa Amini, da parte della “polizia morale”, che vigila sul rispetto delle regole islamiche di condotta, in particolare sul corretto uso del velo femminile. Mahsa però non è un’icona, anche se la sua immagine è subito diventata virale. Mahsa non è morta protestando. In un altro paese, con altre leggi e altre istituzioni, il suo sarebbe stato un gravissimo caso di abuso di potere da parte delle forze d’ordine. Ma la Repubblica islamica è una teocrazia e quello di Mahsa è un caso politico, che riapre una questione scottante e scatena conflitti sanguinosi.

Mahsa è morta nel corso di un fermo in una stazione di polizia, in circostanze non chiarite dalle autorità; non ci sono immagini della sua morte. È una donna comune, finita suo malgrado negli ingranaggi della violenza di regime per un velo indossato male. Va aggiunto che nel 2009 il mondo prendeva ancora le misure con l’impatto di internet sulle logiche dell’informazione e della comunicazione politica. Ci si chiedeva se il nascente regime mediale globale, oscillante tra rimediazione e disintermediazione, avrebbe prodotto una nuova estetica politica: c’era perciò un grande bisogno di immagini e perfino di icone. Le cose oggi stanno diversamente: lo conferma la vicenda della seconda “vittima illustre” della repressione. Hadis Najafi, un’altra ragazza, che protestava contro l’obbligo del velo e per la morte di Mahsa, è stata uccisa in strada da un cecchino: un video ce la mostra poco prima di morire, di spalle, senza velo, mentre si lega i capelli nel corso di una manifestazione. Il video pone una questione di visibilità pubblica delle donne, preliminare all’esibizione di un’immagine. Si tratta della libertà di apparire in pubblico, senza l’obbligo di conformare i corpi a un codice che ne regoli l’aspetto esteriore.

In questi giorni la violenza è ferocissima in Iran, né sembrano esserci spiragli per un’inversione di rotta. La guida suprema, l’ayatollah Khamenei, ha esortato il presidente Raisi ad avere mano ferma nella repressione: nelle manifestazioni di questi giorni la polizia spara ad altezza d’uomo e uccide sul posto. Ponendo la questione del velo, si tocca un nervo scoperto del regime iraniano, che riguarda tanto i suoi fondamenti ideologici quanto la tenuta della sua politica autoritaria. In visita a New York per l’Assemblea generale dell’ONU, Raisi ha addirittura negato un’intervista alla nota giornalista iraniano-americana Christiane Amanpour, perché quest’ultima si era rifiutata di indossare il velo.

Proprio perché si tratta della questione di una visibilità fisica prima ancora che iconica, è fondamentale disallineare l’obiettivo della videocamera che riprende i fatti dal mirino dell’arma che uccide le donne che si mostrano in pubblico senza velo. Nel 2009 l’immagine di Neda insanguinata ha esposto l’opinione pubblica internazionale al trauma emotivo della violenza politico-religiosa. Essere investiti dal flusso di emozioni ha consentito di avviare un processo di elaborazione collettiva. Oggi le cose stanno diversamente. Come ha profeticamente detto Jean-Louis Comolli a proposito della controinformazione sulla guerra civile in Siria, quello attuale, per quanto riguarda il potere testimoniale del cinema e delle “immagini in movimento” in genere, è il momento della controinformazione. Rinunciando al pathos immediato, bisogna cercare un punto di vista critico, a partire dal quale sia possibile mostrare la realtà dei fatti, della repressione o della guerra.

Per questa ragione Hadis Najafi non è un’icona, ma una storia da raccontare. E raccontare una storia attraverso le immagini, tanto più volendo assumere un punto di vista critico, pretende che non si renda trasparente la mediazione, l’angolo che separa e mette in comunicazione chi guarda da ciò che accade. Per chi porta avanti un lavoro politico con le immagini è il momento di tornare a riflettere sulle mediazioni che comporta il racconto del reale. La lezione che viene da maestri del cinema iraniano come Abbas Kiarostami e Jafar Panahi, accrescere la presa sulla realtà lavorando ai confini tra i diversi formati dell’immagine, ha anticipato sul terreno della narrazione un’istanza che oggi acquista tutt’altra urgenza documentaria.

In altre parole, il cinema indica la possibilità di usare l’immagine per esplorare il suo fuoricampo: Kiarostami lo ha fatto in modo magistrale. La domanda che si pone ogni volta di fronte all’immagine “d’attualità” è se sia possibile risalire al suo fuoricampo, cioè alla sua istanza di realtà. Hadis Najafi non deve pertanto diventare un’icona, ma deve rimanere la ragazza di spalle che in un video si lega i capelli prima di unirsi alla lotta. Cosa ne è stato poi di lei? Com’è stata uccisa? Sono questi gli interrogativi che l’immagine dovrebbe lasciare allo spettatore. In un certo senso la figura di Hadis si pone all’esatto opposto dello spettatore modello rintracciato da Louis Marin nell’immagine del potere assoluto: il contadino che si toglie frettolosamente il cappello, con un gesto a metà tra l’omaggio e lo spavento, di fronte all’improvvisa apparizione del re a cavallo. Il riferimento di Marin è a un arazzo di Versailles. Nell’attimo del gesto esemplare di togliersi il velo, Hadis resta invece di spalle, ci nega il suo volto e la sua espressione, non ci dice nulla del pathos prodotto dalla rottura di un codice di obbedienza. E non sappiamo qual è il suo destino: la sua figura non viene fissata in un modello. Così dev’essere, perché oltre quel gesto si apre il fuoricampo della realtà.

Piccola chiosa polemica: dove sono gli e soprattutto le influencer? Non troppo lontano da noi, c’è un patriarcato che non si esaurisce nel perpetuare una cultura tossica, ma è legge e imbraccia il fucile per uccidere chi infrange le sue regole. C’è bisogno di un’intensa campagna mediatica affinché i governi democratici facciano pressione sulla Repubblica islamica per un cambiamento radicale.

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