In Todo modo, film di Pietro Germi del 1976, una Mariangela Melato luccicante di una luce sinistra che sembra uscire da una tela di Max Klinger, esorta Gianmaria Volonté/Aldo Moro a parlare difficile, nel caso in cui non abbia nulla da dire. Non si può dire che a questo tipo di soluzione retorica si siano affidati gli attori delle élites di ogni fazione, che dalla fine degli anni ’80 hanno egemonizzato la lunga mutazione dell’eresia jugoslava in un mattatoio fratricida prima e nelle Repubbliche etnico-nazionali poi. I protagonisti delle élites locali, soffiando sul fuoco di sentimenti nazionalisti, hanno parlato anzi anche molto facile, spesso mostrando la naturale disponibilità di singole persone abbarbicate ai posti di comando di cambiare in un soffio e con disinvoltura il vocabolario dei propri discorsi, per far meglio presa, in un clima ormai mutato, sulla pancia dei cittadini.
Nel suo Una passione balcanica, uscito per i tipi di Besa Muci, Giordano Merlicco mette sotto la lente d’ingrandimento la particolare cura con cui, negli anni del collasso della Jugoslavia, i potentati locali si servirono del calcio e della sua attrazione sul comune sentire di intere comunità, per trovare una fonte di legittimazione a buon mercato, per i propri programmi centrifughi e identitari.
Nella caldera dei Balcani del primo Novecento numerosi club calcistici trovarono in sentimenti di vario irredentismo la propria ragione fondativa, come emerge già da molti dei nomi con cui furono tenuti a battesimo, come l’Hajduk (brigante) di Spalato o il Vojvodina, nato a Novi Sad col nome serbo della regione in cui si trova la sua città, allora sotto il dominio asburgico. Negli anni della Jugoslavia di Tito, le crescenti autonomie e autogestioni locali che trovarono il loro sigillo nella Costituzione federale del 1974, favorirono la popolarità di un calcio molto legato al territorio, innervato su un campanilismo anche molto linguacciuto, ma capace di tenere alto e frizzante il livello della competizione nell’orizzonte plurale delle repubbliche federate. È questo l’humus imprescindibile in cui durante gli anni ’80, nella galassia del tifo calcistico, i nascenti gruppi ultras troveranno un ampio serbatoio di autoriproduzione nei giovani inurbati che, a fronte della stagnazione economica, non riescono più a integrarsi nelle realtà urbane come era riuscito fino ad allora e così iniziano a sperimentare nuove pratiche di insubordinazione e ribellismo urbano, innestandovi modelli di cultura patriarcale che portano con sè dalle aree rurali di origine.
Nella Jugoslavia in cui era bandita ogni forma di nazionalismo, la sottocultura ultras inizia ad appropriarsi di una grammatica nazionalista, da cui il quotidiano Politika mette in guardia già nel 1986, non tanto per strutturate convinzioni politiche, quanto per dare un contenuto identitario a pulsioni anarcoidi antisistema. Nella primavera 1990 nasce Ćao tifo, la prima rivista dedicata alla galassia ultras, che racconta i vari gruppi come soggettività autonome dagli eventi calcistici, che pure restano l’occasione periodica in cui tali gruppi portano sulla scena pubblica dello stadio il proprio messaggio. Negli ultimi anni della Jugoslavia il panorama è ancora molto composito e ci sono ancora gruppi che fondano su sentimenti multietnici la propria identità: in primis le due squadre della capitale bosniaca, l’FK Sarajevo e lo Željezničar. I Manijaci, ultras dello Želje, intonavano l’inno nazionale jugoslavo Hej Slovene e facendosi beffe di ogni nazionalismo cantavano in successione, in un contesto di parodia dissacrante, cori nazionalisti croati, serbi e bosgnacchi. Sulla stessa linea d’onda, i Varvari di Titograd/Podgorica, la Red Firm di Novi Sad, i Lešinari (avvoltoi) del Borac di Banja Luka e la Red Army del Velež di Mostar, nella cui curva sventolavano più bandiere jugoslave che della propria squadra. Ma nelle quattro piazze maggiori, quelle della Stella Rossa, del Partizan, della Dinamo e dell’Hajduk, le élites locali emergenti cercano di egemonizzare i gruppi ultras per farne massa di manovra atta a veicolare in modo spettacolare messaggi apertamente xenofobi e nazionalisti da inculcare con naturalezza nell’opinione pubblica.
Piuttosto pacificamente, iniziano a succedere cose così eclatanti e soprattutto così impensabili ancora poco tempo prima, da lasciar escludere che siano generate ancora da uno strafottente anarchismo, piuttosto che da una sapiente regia occulta: nell’autunno 1989, in occasione di una gara contro il Partizan, la Torcida dell’Hajduk si dispone sugli spalti a formare la U del movimento ustascia e fischia il minuto di silenzio indetto in memoria di 90 operai morti nel crollo di una miniera in Serbia. Ai vertici dei gruppi ultras arrivano sostegni logistici e finanziari e nella primavera del 1990, alla vigilia delle elezioni, in occasione del derby tra Dinamo e Hajduk, i rispettivi ultras mettono da parte ogni rivalità per manifestare congiuntamente il proprio sostegno all’Hdz, il partito nazionalista di Franjo Tuđman, cosí come a Belgrado nel 1989, un personaggio dalla lunghissima fedina penale come Želiko Ražnatović, detto Arkan, che dalla guerra avrebbe tratto occasione di assurgere a mitica icona popolare del sentimento panserbista, viene nominato responsabile della sicurezza della Stella Rossa, certamente anche per allontanare dalle curve gruppi antigovernativi vicini ai nazional-conservatori Vojislav Šešelj e Vuk Drašković, che negli anni ’90 tra i Delije, gli ultras della Stella Rossa, avrebbe reclutato le sue guardie del corpo.
In una sua celebre ode, Orazio ammoniva Asinio Pollione, intenzionato a scrivere della guerra civile, scatenata dalla lotta per il potere di opposte fazioni, di «avviarsi su brace che insidiosa cova sotto la cenere, e come ai dadi è impresa colma di rischio». Si può dire che a fronte di questo alto rischio, Merlicco, muovendosi nel magma di un’epoca e di luoghi in cui molti, troppi, fecero come se il proprio passato fosse solo quello di un tempo mitico e ideale e non più quello del proprio vissuto, tiene alta la guardia e, attraverso una narrazione avalutativa, lascia al lettore spazi di riflessione personale, mentre lo accompagna in un coacervo di episodi che prima, durante e dopo la guerra parlano di calcio, di un gioco che continua ad esistere benché legato al collare di interessi non controllabili e che come la Mariangela Melato di Todo modo, come Die blaue Stunde di Klinger, risplende di un’abbagliante autoevidenza eppure resta indicibilmente fosco, come crittografato.
C’è spazio per partite che diventano ingombranti nella memoria collettiva per non essere state giocate, come quella del 13 maggio 1990 tra Dinamo e Stella Rossa, in cui le tifoserie opposte si affrontano sul campo mischiandosi ai calciatori, dopo che la polizia ha passivamente contribuito a far degenerare il clima. Poi venti giorni dopo, nello stesso stadio, il Maksimir di Zagabria, la Jugoslavia gioca l’ultima amichevole prima dei Mondiali in Italia. Il pubblico fischia l’inno jugoslavo, l’Olanda vince 0-2 e alla fine Ivica Osim, allenatore di quella Jugoslavia, nativo di Sarajevo, applaude il pubblico con sarcasmo. Per lui e per molti altri, quella Jugoslavia, che uscirà ai quarti contro l’Argentina, rappresentava la speranza di una Federazione ancora viva e capace di resistere ad ogni nazionalismo.
E invece, alla ripresa del campionato, in settembre, durante un Hajduk-Partizan, gli ultras della Torcida invadono il campo senza trovare resistenza. La bandiera jugoslava viene ammainata, bruciata e, in fiamme, riportata sul pennone. Nello stesso mese di maggio la Stella Rossa conquista a Bari la Coppa dei Campioni contro l’Olimpique Marseille. I Delije bandiscono l’uso di bandiere jugoslave e srotolano un’enorme bandiera serba con al centro l’ocilo in uso nella Chiesa ortodossa: la croce greca contornata da quattro “S” cirilliche, acronimo di samo sloga srbina spašava, solo l’unità salva il Serbo. Alla manipolazione politica del tifo non interessa che in quella Stella Rossa militino giocatori provenienti da cinque delle sei repubbliche della Federazione. Osim porterà una Jugoslavia via via sempre meno multietnica a qualificarsi agli Europei del 1992 in Svezia, ma a maggio, con la sua Sarajevo sotto assedio da un mese, getta la spugna e si dimette. La Jugoslavia, con una rappresentativa di serbi e montenegrini, va in Svezia per ritrovarsi sola come Gesù nel Getsemani: allineandosi alle sanzioni dell’ONU, l’Uefa e la Fifa mandano la Jugoslavia a casa e la rimpiazzano con la Danimarca, che nel suo girone era arrivata seconda alle spalle dei ragazzi di Osim, che avranno anche la beffa di vedere la Danimarca vincere l’Europeo. Non aiuta sentirsi dire che non esisti, se il tuo cuore manda segnali diversi.
C’è spazio per episodi kafkiani, che fanno pensare al protagonista de L’occhio della patria di Osvaldo Soriano. L’uomo si presenta dandosi della spia morta di un Paese che non esiste, come quando nel 1996 il Paraguay invita la Bosnia per una sfida amichevole e, non essendosi una federazione calcistica bosniaca ancora strutturata, s’imbuca di traverso una nazionale dell’Herceg-Bosna, entità statuale dei Croati di Bosnia mandata in dismissione dagli accordi di Dayton dell’anno precedente, che riesce anche a far suonare Lijepa naša, l’inno croato, ma non ad indossare la maglia con i colori della bandiera croata, soltanto per la profana ragione che sono gli stessi della squadra ospitante. O come quando nel dicembre del 1992, prima di una gara accortamente definita non internazionale, ma interstatale, tra la Republika srpska dei Serbi di Bosnia e la Krajina dei Serbi di Croazia, le note di Bože pravde, l’inno serbo, vengono fatte risuonare una prima e una seconda volta.
Chi scrive è nato alla metà degli anni ’70 e da alcuni fraterni amici, suoi coetanei, cresciuti in quella Jugoslavia in cui la convivenza pacifica e multietnica fu prassi politica e di cittadinanza quotidiana, si è sentito ripetutamente dire che se lo status quo avesse tenuto botta per ancora almeno un decennio la loro generazione, poi dispersa nel mondo in una diaspora provocata dalla guerra, non avrebbe mai permesso che succedessero le cose che sono successe, che la gente iniziasse a scuoiare vivi i propri vicini perché improvvisamente diventati rappresentanti di un’altra razza. Il libro di Giordano Merlicco mostra molto bene come negli anni in cui un vasto territorio europeo è regredito in una sorda brutalità premoderna, catene di comando senza scrupoli, vuoi con le armi, vuoi con l’etnicizzazione di una lingua comune, abbiano piegato ai propri interessi particolari ogni patrimonio di cultura immateriale fino a quel momento condiviso dalla comunità.
In questo, il calcio, messo al microscopio, assume un nitido valore esemplare, particolarmente nel tramestio del moto perpetuo di marea e di risacca che caratterizza i rapporti tra il potere e le soggettività ultras che, nell’inevitabile incontro-scontro con poteri costituenti o costituiti, danzano sempre sul filo di un rasoio in cui il confine tra la lusinga illusoria di farsi mosca cocchiera di disegni politici troppo più grandi e l’anelito di fare salvo il proprio posto scucendo piccoli, ma vitali ambiti di manovra, cavalcando evolianamente la tigre, è continuamente cancellato, riscritto, contraddetto, rinegoziato, a seconda dell’interesse politico che ogni volta i centri di potere hanno a mostrarsi più vicini o più distanti dal tifo organizzato.
La felice riuscita di questo libro lascerebbe augurare che lo stesso taglio che qui è dedicato agli anni dello sfacelo della Jugoslavia, della guerra e delle sue durature conseguenze, si ripetesse per un lavoro sugli anni della pace titina e dunque sulla investigazione di quel sentimento di cittadinanza che fu intimamente sentito e socialmente condiviso, che si manifestò prorompente il 4 maggio 1980 nello stadio Poljud di Spalato quando, diffusasi la notizia della morte del Maresciallo, si decise di interrompere la partita tra l’Hajduk e la Stella Rossa e spontaneamente il pubblico, con i giocatori a centrocampo, intonò l’inno partigiano Druže Tito mi ti se kunemo (Compagno Tito noi te lo giuriamo). Una comunità che inizia a cantare all’unisono senza che nessuno glielo abbia chiesto in alcun modo: oggi, dopo neanche troppi anni, siamo consegnati ad un’idea di comunità talmente atrofizzata da renderci difficile, di fronte alla memoria di un simile episodio, non cadere nella tentazione di allontanarlo con una risata, accompagnata da un sentimento che può variare dalla tenerezza alla derisione.
Riferimenti bibliografici
Q. O. Flacco, Odi Epodi, Garzanti, Milano 1986.
O. Soriano, L’occhio della patria, Einaudi, Torino 1993.
Giordano Merlicco, Una passione balcanica, Besa Muci, Nardò 2023.