Lila e Lenù - L'amica geniale

Una telefonata. Una sparizione. La cancellazione di  ogni traccia. Un fantasma, un flashback che risale il cunicolo del tempo di sessant’anni,  dalla tastiera di un computer di oggi alla pagina di un quaderno di prima elementare degli anni cinquanta. L’inizio della serie L’amica geniale è aderente all’incipit del romanzo di Elena Ferrante per passaggi narrativi e atmosfere.

Il caso letterario in America di My Brilliant Friend nella tetralogia Neapolitan Novels, e il suo approdo allo schermo in forma seriale con un’imponente produzione internazionale, espongono l’operazione ai due rischi principali dello stile fiction-generalista e dello sguardo folklorico-pittoresco napoletano. Rischi che Saverio Costanzo sembra complessivamente aver schivato con equilibrio nei primi due episodi sull’infanzia di Elena Greco detta Lenù e Raffaella Cerullo detta Lila. Scelte precise (volute, sembra, dalla scrittrice) come l’uso del dialetto (non presente nel romanzo) e le sorprendenti  bambine protagoniste non professioniste, insieme ad attori adulti perfettamente calibrati, danno corpo e materia al racconto dell’infanzia livida di Lenù e Lila, ricostruendo quel legame di alterità, sfide, subalternità, reciproci saccheggi, che è il nucleo centrale del romanzo.

Un’amicizia tra due donne che entra dentro due vite. Tema che è forse una delle chiavi del successo ottenuto in America, dove le narrazioni, in primis quelle cinematografiche, molto più che in Italia, hanno variamente declinato, in modo potente, storie di amicizia, anche se per lo più maschili (Il cacciatore, Il grande Freddo, Mistic River). Una convenzionale e un po’ didascalica voce narrante (Alba Rohrwacher) accompagna lo sguardo della protagonista tra citazioni neorealiste (Ladri di biciclette e – incautamente – Roma città aperta) seguendo il flusso delle sue pulsioni, dentro un rione sottoproletario di Napoli, immerso in una quotidianità violenta, una brutalità dalla quale si intravede la possibilità di riscatto attraverso la sola arma dell’intelligenza e dell’istruzione.

La forza ammaliante e demonica di Lila (il romanzo si apre con una citazione in esergo dal Faust di Goethe) è la chiave di accesso a una visione del mondo e delle cose che comprende possibilità non immaginabiliCome quella di fuggire di nascosto dal rione per andare a vedere il mare, mai visto nella vita (l’idea disarmante di una Napoli senza un mare), che porta le due bambine a superare il confine invalicabile dello stradone attraverso il tunnel, per entrare in un mondo nuovo e inesplorato, una campagna vuota attraversata da pecore e camion, dalla quale, travolte dal temporale, saranno costrette a tornare indietro senza riuscire (come fa invece l’Antoine Doinel dei 400 colpi) a giungere al mare. 

Due bambine di sei anni inventano giochi feroci, gettando nel buco nero di una grata gli unici giocattoli posseduti, le bambole Tina e Nu – come una sorta di “Rosebud” – tracce di un’infanzia sommersa, ingoiata dal tempo, come ci mostrerà il corso del romanzo. La perdita delle bambole è compensata dall’acquisto del primo libro-trofeo-feticcio, Piccole Donne, e dall’impellente desiderio di scrivere un proprio libro. La potenza misteriosa e trascinante di Lila guida le due bambine nell’impresa impensabile di sfidare l’”orco” Don Achille, il feroce malavitoso del rione, mostro di Dusseldorf, che proietta ombre scure su un’infanzia “popolata” di scarafaggi che invadono di notte gli spazi del quartiere e i corpi delle donne.

L’amica geniale è il racconto del potere salvifico della narrazione e della scrittura, dell’utopia impossibile dell’accesso all’istruzione in un Paese che nel tempo cambia struttura e ricompone assetti sociali, lasciando però individui smarriti che perdono a tratti i margini delle cose.

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