Resilienza è per noi la capacità di resistere agli urti della vita. Ad ogni modo, far fronte ad un evento traumatico, superare lo stallo di un disagio psicologico, talvolta non spiccatamente evidente ma quasi sempre debilitante, significa sottoporsi ad un processo lento ed altrettanto sofferto di riabilitazione, il quale non solo richiede del tempo per compiersi e per potersi definire riuscito, ma necessita anzitutto di una disposizione stabile e “convinta” del soggetto a scollarsi momentaneamente da se stesso; a vestire, in un certo senso, la pelle di un altro, così da porsi alla giusta distanza dalle cose, osservarsi dall’esterno e divenire consapevole di ciò che è stato e di ciò che è.

Questa sorta di temporanea astrazione, da cui la conquista della consapevolezza deriva e che di fatto si traduce in uno sdoppiamento individuale, si realizza e diventa elemento narrativo predominante nel recente lavoro di Derek Cianfrance Un volto, due destini – I Know This Much Is True (2020), la miniserie HBO (trasmessa in Italia su Sky Atlantic) che racconta del riscatto del suo protagonista da un’esistenza intrisa di dolore e segnata dalla perdita. Nell’arco dei sei episodi di cui si compone – in cui subito si delineano i contorni e rintracciano i contenuti tipici del dramma d’ambientazione domestica che il regista statunitense aveva già sviluppato per il grande schermo (Blue Valentine, 2010, Come un tuono, 2012) – l’efficace trasposizione seriale del testo letterario La notte e il giorno (1998) di Wally Lamb ripercorre i momenti più significativi, e svela i retroscena, di una vera e propria Odissea personale e familiare, configurandosi come una delicata e meticolosa riflessione sulla verità dei sentimenti umani e la problematicità delle relazioni intime.

Penetrando lo spazio privato della casa, la macchina da presa si insinua dunque nella realtà complessa della famiglia, luogo d’amore incondizionato e serbatoio di tensioni, rifugio confortevole e insieme raccoglitore di traumi e risentimenti, di violenze e attriti irrisolti, di paure e bisogni insoddisfatti, e ancora di rabbia repressa e sensi di colpa. In un’atmosfera cupa e malinconica, di per sé disturbante, presente e passato si mescolano e, spiegandosi in segmenti diversi ma connessi, la narrazione assume dall’inizio alla fine la forma di un lungo monologo interiore tramite cui il personaggio principale racconta e si racconta la storia turbolenta della propria vita, letteralmente guardandosi, come in uno specchio.

Ora, se nell’opera di Cianfrance tale meccanismo di “separtizione” e la proiezione nell’altro da sé si rendono chiaramente visibili, ciò accade perché la vicenda si struttura attorno al legame viscerale, per quanto tormentato, che vede coinvolti due fratelli gemelli del Connecticut, identici benché differenti, tra loro “sovrapponibili”, “commutabili”, e perciò destinati – sia pure per ragioni e finalità distinte – ad intercedere l’uno per l’altro.

Nati a cavallo tra il 1949 e il 1950, e cresciuti assieme alla docile madre sotto le pressioni di un patrigno aggressivo e autoritario incapace di sopperire alla mancanza del padre biologico, quarant’anni dopo, Dominick e Thomas Birdsey – entrambi interpretati da un Mark Ruffalo ispirato e premiato come miglior attore agli Emmy Awards 2020 – conducono infatti vite diverse ma interdipendenti, perché ugualmente influenzate dal ricordo spiacevole e dalla mancata risoluzione di eventi passati, ma soprattutto a causa della schizofrenia paranoide che affligge Thomas sin dalla tenera età, richiedendo di continuo la cura e l’assistenza di un tutore. Il racconto verte così sulla natura simbiotica di una “fratellanza” necessaria, ricercata, voluta, che con il suo incalzare si rivela però essere, al tempo stesso, condizionante, opprimente, e al fondo compromessa tanto quanto il rapporto disfunzionale con la figura paterna, quello controverso con le proprie origini (la storia familiare è lacunosa e in buona parte sconosciuta), quello involontariamente distrutto con la compagna di una vita (il matrimonio di Dominick è naufragato in seguito alla morte prematura della figlia).

Pertanto, l’internamento di Thomas in un carcere di massima sicurezza e l’aggravarsi della sua condizione psicofisica seguiti all’automutilazione di una mano, avvenuta “in nome di Dio” in una biblioteca pubblica, svelano una crisi latente, una frattura preesistente che non intacca soltanto la coesione gemellare, bensì scopre un vuoto nel vissuto soggettivo. E se da un lato, nonostante gli svariati tentativi del fratello di salvarlo, quel vuoto finisce per inghiottire Thomas determinandone la morte, per Dominick la sua scoperta rappresenta invece l’occasione di un viaggio introspettivo e di un percorso ri-conoscitivo – fondato, appunto, sulla consapevolezza – culminante nella pacificazione dei propri conflitti interiori, nell’elaborazione del lutto e del trauma, nell’accettazione del dolore e nell’espiazione della colpa, nella scelta del perdono che, infine, apre la strada ad un ritorno alla vita rendendolo resiliente. Cianfrance offre perciò al suo personaggio la possibilità di una redenzione e, se anche indaga il deterioramento e la trasformabilità dei legami e le ombre dell’animo umano, non scade nel pietistico o nell’eccessivamente melodrammatico, affinché lo scioglimento dell’intreccio possa coincidere con la riapertura del tempo e con una riconciliazione del soggetto con se stesso.

Dapprima alla ricerca di un capro espiatorio a cui rivolgere aspre recriminazioni (il nonno, i padri, il fratello malato), e convinto che sulla famiglia gravi un’antica maledizione, Dominick inizia pian piano a rapportarsi alla realtà da una diversa prospettiva, imparando ad accettare l’errore e la caduta, trovando il coraggio di perdonare e perdonarsi, e soprattutto recuperando l’amore e la fede necessari per salvare ciò che ancora può essere salvato (nel finale non abbandona il patrigno, si riavvicina alla moglie, stringe tra le braccia un neonato proiettandosi verso il futuro).

In Un volto, due destini si ripete forse uno schema già visto. Eppure accade qualcosa di singolare laddove quel volto, incarnandosi in corpi separati, si fa “varco”, superficie attraversabile che dà su un luogo: quel volto, proprio in virtù della sua doppiezza e della sua trasparenza, rende infatti possibile non solo l’atto del guardare dentro ma anche quello del vedere (vedersi) da fuori. Quando la psicologa di Thomas richiede un incontro con Dominick perché “lei è lui, lui è lei, più che fratelli siete ognuno l’altro”, lo esorta appunto ad entrare, varcando la soglia di un’intimità “estranea”, nella sua ferita; a guardare nella solitudine e nella sofferenza del gemello, cui cede il ruolo di intercessore, per risalire alla radice della propria e riconoscerla; a vedere riflessa, nella frammentarietà identitaria del suo complementare, amato tanto quanto “demonizzato”, una parte ineliminabile di sé.

Il volto diviene, a tutti gli effetti, lo schermo di una visione (lo sottolineano i primissimi piani e le riprese in semi-soggettiva) e in quella visione, come il cinema ci insegna, è inscritto un nuovo modo di vedere. Se dunque, a livello dell’intreccio, la serie approda alla rivelazione di un punto di vista inedito che inaugura il percorso catartico del personaggio, ad un livello più profondo il suo merito sta nel riuscire a racchiudere l’essenza e a rendere manifesta e più “tangibile” l’idea dell’immagine come doppio del mondo e della vita, finestra aperta sull’esperienza e sul sentire di noi spettatori che, di fronte al suo farsi racconto, ci incontriamo, ci trasformiamo, vediamo ciò che siamo, rideterminiamo i nostri destini.

Un volto, due destini – I know this much is true. Ideatore: Derek Cianfrance; interpreti: Mark Ruffalo, Melissa Leo; produzione: FilmNation Entertainment; distribuzione: Sky Atlantic; origine: USA; anno: 2020 – in produzione.

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