Dimidiato, mutilato, incompleto, nemico a se stesso è l’uomo contemporaneo.
I. Calvino
Nel rapporto tra cinema e letteratura si tende generalmente a considerare il primo un’ancella della seconda. Fin dalle sue origini il cinema ha attinto dalla letteratura, che ha sempre fornito soggetti con cui i cineasti si sono cimentati per rendere in termini visivi e sonori le invenzioni più ardite del linguaggio. A Snake of June di Tsukamoto Shin’ya costituisce invece un caso singolare: infatti, in Giappone la distribuzione del film, presentato nel 2002 a Venezia dove si è aggiudicato il Premio speciale della giuria, è avvenuta in contemporanea alla pubblicazione dell’omonimo romanzo che, ad aprile di quest’anno, è stato finalmente tradotto da Francesco Vitucci per Marsilio. La trasposizione letteraria plasma una forma narrativa che non sacrifica la suggestività delle immagini cinematografiche, ma ne ricalca anzi l’architettura metaforica e mantiene i punti di vista dei tre personaggi e una scansione simile degli eventi. Ad essere preservata ed esaltata è insomma la struttura dinamica del mondo che, anche nella trasposizione letteraria, è affidata alla scomposizione di un movimento senza requie, oscillante tra interiorità ed esperienza esteriore, desiderio di evasione e cruda realtà dei fatti, inconscio bulimico e autocontrollo coatto. Come le fotografie al centro della narrazione, l’opera coglie il mondo tra un lampo di un flash e l’altro e la sua arte metaforica percepisce il tumulto al di sotto dell’epidermide.
Rinko, moglie di un uomo più grande, devoto alle pulizie domestiche e poco complice nell’intimità, è un personaggio apparentemente paradossale: l’immagine della salvezza, una donna che lavora come assistente psichiatrica per una linea diretta di sostegno, consapevole che «quando facciamo ciò che sentiamo davvero, riusciamo a goderci appieno la felicità» (Tsukamoto 2022, p. 30); e altresì una persona umbratile incapace di fare nella vita privata ciò che predica nel suo lavoro. La repressione pavida dei suoi istinti è incentivata dal mondo del lavoro – fondato sull’accettazione di un’operosità dissennata che impoverisce la vita interiore – e da una mentalità vetero-patriarcale che demonizza in maniera apotropaica ciò che elude il suo controllo. Da qui l’ossessione del marito, Shigehiko, il quale osserva con terrore il serpente bifronte che affiora da Rinko, da una parte simbolo della malattia, dell’altra spia di un desiderio divorante. Il fotografo Iguchi, malato terminale che conosce Rinko rivolgendosi alla linea di sostegno psicologico, è osservato nel suo divenire corpo mediale capace di rimettere in contatto – come il signor Gibiser di Doppio sogno che “non pretende mai più di quanto gli spetti” – una moglie e un marito che hanno smesso di comunicare e di considerarsi una coppia: «Non facciamo più molto sesso. […] Quando ci capita di farlo, ho la sensazione di andare oltre i limiti del familiare e di brancolare in una sfera animalesca che poco mi appartiene», confessa Shigehiko (ivi, p. 80).
Come il pittore per Valéry, Iguchi si dà con il suo corpo, prestandosi al mondo per trasformarlo in arte, accogliendo la propria morte per salvare Rinko dalla sua malattia. La presenza di Iguchi contribuisce così a rendere manifesto il desiderio tanto inconscio quanto maldestro – maldestro come un involucro che contiene fotografie compromettenti e che riporta a caratteri cubitali il messaggio «(Tienilo) nascosto a tuo marito» (ivi, p. 25) – di Rinko di essere colta in flagrante dal marito e di riscoprirsi pienamente donna. Sia il film sia il romanzo pongono l’accento sugli scarti tra l’immagine che ognuno ha di sé e il modo in cui invece si appare agli occhi degli altri. Le fotografie permettono di mostrare fenomenologicamente il corpo in quanto vedente e visibile (Merleau-Ponty), ossia il corpo che osserva e si posa su ogni cosa ma che d’altra parte può anche guardarsi. Tramite gli scatti di Iguchi, Rinko scopre di essere ciò che non credeva (o non aveva il coraggio) di essere: corpo desiderante e desiderato, corpo rigoglioso eppure minacciato dalla malattia. Allo stesso modo, attraverso il corpo esposto di Rinko, Shigehiko si rimette in contatto con la propria corporeità, da lui ricusata perché associata a una «odiosa immagine di putrefazione» (ivi, p. 84). Inaspettatamente risucchiato dal turbine del desiderio, Shigehiko scopre altresì che: «Rinko non mi appartiene più. Nessun essere umano può rivendicare la proprietà di un suo simile. Il vincolo del matrimonio mi aveva illuso di avere il diritto di gestire mia moglie a mio piacimento, oggi però quell’illusione è svanita. Rinko non è di nessuno. È solo di se stessa» (ivi, pp. 98-99).
La tanto vituperata illusione fotografico-cinematografica – quella patina estetizzante che valorizza la superficie producendo una vera e propria trasfigurazione dei soggetti rappresentati – dirada invece il ben più pericoloso sonno della ragione che ingabbia l’umanità e la conforma a ruoli, mansioni e identità tanto gratuite e genericamente “universali” quanto profondamente radicate in ogni individuo che finisce col ritenerle ineluttabili. Da una prospettiva cinematografica, la macchina fotografica/da presa si inabissa nelle stanze più buie e si insinua tra le finestre adombrate da tende che, come sudari, avvolgono i corpi privati della loro vitalità. Ogni cosa annega nel blu alluminio delle ortensie e la pioggia incessante sembra voler irrorare la prigione di cemento che sino ad allora ha soffocato i suoi personaggi, da Tetsuo: The Iron Man (1989) a Bullet Ballet (1998). Ritornare alla vita è doloroso, è un rito freddo e spietato, come il bianco e nero con viraggio blu che asperge le immagini. Eppure l’unico modo per non spegnersi lentamente sotto al peso di una società “cementificata” e opprimente è danzare – come faranno letteralmente le protagoniste di Vital (2004) e Kotoko (2011) – sull’orlo dell’abisso, riscoprendo il proprio corpo e le sue ragioni, incuranti del buoncostume, della produttività, delle esigenze della società.
La libido vivendi prorompente rende Rinko una creatura acquatica che scopre – e soprattutto arriva ad accettare – il proprio desiderio, diventando una delle più grandi figure femminili del cinema giapponese del nuovo millennio assieme alla Saeko di Acqua tiepida sotto un ponte rosso (Imamura, 2001). Nel corso di giugno, mese solitamente molto piovoso in Giappone, ogni cosa è investita dal flusso inarrestabile dell’acqua e rischia di restarne travolta, ma al contempo la copiosità delle piogge permette la crescita delle vegetazione – che s’insinua negli anfratti più inospitali della metropoli, tra il cemento e le scorie mefitiche dell’iper-urbanizzazione – nonché la guarigione o persino la rinascita di un corpo. A Snake of June costituisce il punto di svolta nella carriera di Tsukamoto, poiché in questo film attenua certi dettagli che lo avvicinavano all’immaginario body horror cronenberghiano e alla virulenza selvaggia e abnorme, quasi da snuff movie, ricorrente nel panorama nipponico degli anni ottanta (si pensi alla celebre serie di film Guinea Pig realizzati tra il 1985 e il 1992). L’opera rafforza gli stilemi del precedente Gemini (1999), in cui il montaggio frenetico, la recitazione concitata e sopra le righe, la shaky camera e l’aggressività audiovisuale – marchi di fabbrica tsukamotiani – sgomitano per trovare posto entro una mise-en-scène altrettanto attenta alla stilizzazione e alla delicatezza soffusa e languida. Non deve stupire se l’idea di scrivere questo film-romanzo risale al periodo in cui Tsukamoto lavorava a Tetsuo, poiché la poesia della solitudine metropolitana traluce già nella sua prima sfuriata “cyberpunk”. A Snake of June non ripudia neppure i “pugni ipercinetici” di Tokyo Fist (1995), ma si rituffa anzi nella sua visione bluastra, nei filtri cromatici che contestano la pretesa di una rappresentazione naturalisticamente trasparente e fedele ai soggetti osservati.
L’erotismo incontenibile che ghermisce Rinko dall’interno si consuma nell’interstizio tra carnale e mentale e si attualizza soltanto quando l’obiettivo della macchina fotografica la sfiora o, ancora, quando un telecomando azionato a distanza può scandire le fasi di un amplesso intimo e totalizzante, animale e “immorale”, consumato in pieno giorno, sotto gli occhi di tutti, senza preoccuparsi «di quello che potrebbe pensare la gente» (ivi, p. 26), in un invito a non ignorare i messaggi inviati dal corpo, spazio natio dell’anima e non mero involucro putrescente e dispensabile. Vedere vuol dire prendere parte, essere coinvolti nella carne e nello spirito, abbracciando la sensuosa e “dispendiosa” riscoperta di ciò che aiuta a vivere meglio. Un serpente di giugno è un viaggio porno-grafico, una riflessione dai toni diaristici, una scrittura del privato – memore della lezione di Edogawa Ranpo e del Tanizaki de La chiave e di Diario di un vecchio pazzo – che esalta il potere salvifico e individualizzante del desiderio, incarnato in un mondo in cui ci si riconosce inemendabilmente diversi o in cui non ci si riconosce affatto.
Riferimenti bibliografici
M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, SE, Milano 1996.
A. Schnitzler, Doppio sogno, Adelphi, Milano 1998.
Shin’ya Tsukamoto, Un serpente di giugno, Marsilio, Venezia 2022.