Leggendo i numerosi articoli e messaggi apparsi sui media a seguito della morte di Chick Corea, le parole-chiave più interessanti che ricorrono, e sui cui ragioneremo in questo breve omaggio, sono senz’altro: innovatore (secondo il New York Times, la Recording Academy che assegna i Grammy, il sito di Auditorium Parco della Musica, il chitarrista Al Di Meola, il bassista Marcus Miller e il cantautore Cat Stevens), apripista (secondo il cantante Jacob Collier), pioniere (Variety, Billboard, L.A. Times), rivoluzionario (Rolling Stone).

Prima di tutto, però, vale la pena soffermarsi su una delle frasi che Quincy Jones, uno dei più influenti produttori della musica afroamericana del XX secolo, indirizza a Chick Corea nel giorno della sua scomparsa: «Da vero bebopper, come eri dentro di te, non c’era assolutamente niente che ti fosse precluso musicalmente». La seconda parte della dichiarazione di Quincy Jones descrive perfettamente la produzione artistica di Chick Corea, che ha praticato i più svariati stili del jazz e non si è negato nessuna esperienza musicalmente eterodossa; ma l’eclettismo di Chick Corea non è certo una scoperta. Ciò che sorprende, al contrario, è che Quincy Jones consideri Chick Corea un musicista che è bebopper dentro («at heart»). Poiché il bebop è il nuovo stile del jazz dopo la Swing Era, negli anni quaranta (cioè quando Chick Corea è in fasce), considerarlo bebopper va forse preso come un attributo puramente simbolico, come per dire che è stato un musicista creativo e innovativo “come” lo furono i beboppers. Tuttavia, la frase è così intrigante (e chi l’ha pronunciata così importante nella storia della popular music) che vale la pena provare a riflettere sul suo significato letterale.

Anzitutto, quando nel 1959 Chick Corea si trasferisce dal Massachusets a New York e comincia a suonare con giovani talenti come Tony Williams e Don Alias, apparentemente il bebop è uno stile al tramonto. Nel corso degli anni sessanta il jazz si infiamma esplorando gli orizzonti free o fusion, eppure ci sono compositori che continuano incessantemente a lavorare sulle strutture armoniche del bebop, come se quella tradizione non avesse ancora detto tutto quel che si poteva dire, come se ci fosse ancora molto da esplorare. Fra questi compositori si può certamente annoverare Chick Corea. Di ciò ha dato una dimostrazione scientifica il grande musicologo Steven Strunk, analizzando alcune composizioni originali di Corea del decennio in questione. Si tratta di “Litha” e “Tones for Joan’s Bones” (dall’album Tones for Joan’s Bones registrato nel 1966 e pubblicato due anni dopo), “Windows” (comparsa per la prima volta sull’album Sweet Rain di Stan Getz del 1967), “Steps” e “Now He Sings, Now He Sobs” (dall’album Now He Sings, Now He Sobs del 1968). La disponibilità delle tracce sopracitate su tutte le piattaforme digitali di distribuzione offre la possibilità anche ai non collezionisti di ascoltare i brani per farsene un’idea.

Lo studio di Steven Strunk dimostra che queste composizioni (a livello armonico) si possono in parte ancora ricondurre al bebop e al sistema tonale, ma sono contestualmente il prodotto di una ricerca nuova nell’ambito dell’armonia non funzionale; se poniamo che la struttura armonica del jazz sia tonale fino al bebop, entri in una successiva fase modale e approdi infine alla fase free, le composizioni di Chick Corea degli anni sessanta individuano un fase intermedia, detta postbop. Il fascino di queste composizioni è proprio in questa dimensione intermedia, disseminata di passaggi ambigui; sebbene la fama di alcuni brani successivi di Chick Corea come “Spain”, “500 miles high” o “Captain Marvel” abbia ampiamente superato i confini della comunità del jazz, il disegno armonico di “Windows” resta un gesto compositivo di rara bellezza, anche e soprattutto per le ragioni storiche elencate.

Nel 1968 Chick Corea entra nel gruppo di Miles Davis, agli albori della elettrificazione del jazz; contribuisce, suonando vari modelli di piano elettrico (RMI Electra Piano, Fender Rhodes, Wurlitzer) in Filles de Kilimanjaro (1968), In a Silent Way (1969) e Bitches Brew (1970). Soprattutto l’ultimo dei tre album ha un risultato commerciale impressionante, mezzo milione di copie vendute in un anno, numeri più vicini al rock che non a una musica strumentale e sperimentale. Su Bitches Brew Corea condivide lo strumento, per così dire, con Joe Zawinul, ma non c’è alcuna alternanza: i due tastieristi e il chitarrista John McLaughlin, spiega il musicologo Gianfranco Salvatore, «incastrano accordi come tessere di una scacchiera tridimensionale». Il periodo con Davis è ovviamente un generatore di leggende, e non stupisce che Corea trovi difficoltà a interpretare le celebri istruzioni musicali del leader. Salvatore riporta in particolare questo botta e risposta su un palco di San Francisco. Corea chiede a Davis: “Come faccio ad avere tonalità chiare e pulite con il piano elettrico?”. “Smetti di suonare”, la risposta lapidaria del trombettista. Di lì a poco, Chick Corea esce dall’orbita dello sciamanico Davis e fonda una band che ha un impatto notevole sulla scena fusion, i Return to Forever; nello stesso tempo, firma con la ECM e inaugura con Piano Improvisations vol. 1 e vol. 2 (1972) la stagione introspettiva dei progetti per piano solo, che ha avuto un’influenza profondissima sui pianisti delle generazioni successive, al pari di quella esercitata da Keith Jarrett.

C’è da chiedersi se nel lungo percorso fra generi e stili, poi effettivamente Chick Corea abbia perso o mantenuto quelle radici bebop di cui parla Quincy Jones. Per provare a rispondere, vale la pena rivolgersi a un altro saggio che Steven Strunk dedica a un unico brano: l’esecuzione dal vivo di “Night and Day”, lo standard di Cole Porter, realizzata dallo storico trio di Chick Corea con Miroslav Vitous e Roy Hayden (sull’album Trio Music Live in Europe del 1984). In questa performance il pianista torna a esplorare quella dimensione intermedia che lo aveva appassionato vent’anni prima; come dimostra Strunk nella sua analisi, si nota qui la predilezione del pianista per gli accordi diatonici giustapposti (solitamente di settima maggiore) con modulazioni basate sulle relazioni di mediante cromatica. Si nota anche un’altra caratteristica fondamentale di questo musicista che era bebopper “dentro”: è la gioia di suonare, un elemento che persino il severo musicologo non può esimersi dal sottolineare, quando si accorge che c’è. Strunk, analizzando la performance del trio di Chick Corea, la chiama «playfulness» (letteralmente “giocosità”) e la riconosce nelle imitazioni a canone rigorosamente improvvisate con cui i tre strumentisti dialogano tra loro.

Riferimenti bibliografici
G. Salvatore, Miles Davis. Lo sciamano elettrico, Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, Viterbo 2007.
S. Strunk, Chick Corea’s 1984 Performance of ‘Night and Day’, in “Journal of Music Theory”, 43.2, 1999.
S. Strunk, Tonal and Transformational Approaches to Chick Corea’s Compositions of the 1960s, in “Music Theory Spectrum”, 38.1, 2016.
S. Zenni, Storia del jazz. Una prospettiva globale, Nuovi Equilibri, Viterbo 2012.

Armando Anthony Corea, Chelsea 1941 – Tampa Bay 2021.

Tags     bebop, Chick Corea, jazz, Musica
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