Scrittore ed esperto di caccia grossa, Robert Rainsford riesce a raggiungere la riva di una piccola isola dopo il naufragio dello yacht su cui stava navigando. È l’unico sopravvissuto e viene accolto nel castello del conte Zaroff, un espatriato russo che ha la passione della caccia e ammira i libri di Robert. Quest’ultimo fa amicizia con Eve Trowbridge, anche lei scampata a un naufragio insieme al fratello Martin, e anche lei ospite del castello. Zaroff nasconde un terribile segreto: affonda le navi che passano vicino alla sua isola, in modo da avere prede umane per le sue partite di caccia. Dopo che Robert e Eve scoprono il segreto, Robert rifiuta la proposta del conte di essere al suo fianco nella successiva caccia. Di conseguenza diventerà la preda: se sopravvivrà, lui e Eve potranno lasciare l’isola; altrimenti Eve sarà tenuta prigioniera per sempre. Robert è costretto ad accettare, anche se nessuno fino ad allora è sopravvissuto a tale “pericolosa partita”.

La caccia inizia, e Eve fugge con Robert; inseguiti da Zaroff, i due preparano una trappola e si rifugiano in una caverna. Zaroff scopre la trappola e la disinnesca; si avvicina alla caverna ma si ferma sulla soglia; sa che Robert e Eve sono nascosti lì dentro, ma non può vederli, mentre Robert e Eve lo vedono in piena luce. Zaroff allora impugna l’arco tartaro che ha scelto per la caccia, e lancia una freccia nel buio… La sequenza in cui Zaroff cerca di colpire Robert e Eve nascosti nella caverna, anche se non li può vedere, è una scena chiave del film La pericolosa partita (The Most Dangerous Game, 1932) di Irving Pichel ed Ernest B. Schoedsack. In una ben nota analisi, lo studioso e videoartista Thierry Kuntzel ha sottolineato l’analogia della situazione rappresentata nel film e quella in cui si trovano gli spettatori in una sala cinematografica (1975, pp. 85-97): in entrambi i casi c’è uno spazio chiuso in cui alcuni osservatori, nascosti nel buio, vedono qualcuno in piena luce, che non è in grado di vederli. Da questo punto di vista, Robert e Eve sono perfetti spettatori, e Zaroff è l’epicentro dello spettacolo («[…] gli attori-macchinisti diventano spettatori. Essere nell’oscurità e guardare la scena inquadrata dall’entrata della caverna, fortemente illuminata: teatro, cinema», ibidem, p. 89). Tale analogia – che Kuntzel interpreta in chiave psicoanalitica, come un riemergere della “scena primaria” in cui i bambini spiano gli atti sessuali dei genitori – può essere sviluppata ulteriormente.

L’articolazione degli spazi, il confronto tra il cacciatore e la preda, e la logica sottostante la caccia, sono infatti una metafora del tipo di spettatorialità che produce il complesso proiezione/protezione, soprattutto quando lo schermo è collocato in una sorta di teatro, come è il caso non solo del cinema ma, prima ancora, della Fantasmagoria. Proverò a portare questa metafora fino in fondo, e lo farò in quattro tappe. Cominciamo dalla caverna in cui Robert e Eve si sono nascosti. Non si tratta solo di uno spazio chiuso: si tratta anche di uno spazio protettivo. Per Robert e Eve infatti la realtà esterna è fonte di pericoli, a partire dalla minaccia rappresentata dallo stesso Zaroff: di qui il bisogno di un qualcosa che li separi dal mondo e che li metta al sicuro. Ma la caverna non è un luogo sigillato.

Dopo che Zaroff disinnesca la trappola di Robert, la strada che gli si apre davanti è libera; dentro la caverna, Robert e Eve lo vedono avvicinarsi. È in quel momento che, in modo del tutto imprevisto, Zaroff si ferma sulla soglia della caverna. Questo semplice gesto, oltre ad aumentare la suspense, svela la presenza di due diversi «regimi di luce» – per usare un’espressione di Gilles Deleuze (2007, p. 13). Mentre la caverna è al buio, il suo ingresso è illuminato. Zaroff, fermo sulla soglia, sembra quasi splendere: quando è in primo piano, la sua faccia è ben rischiarata; quando è in piano medio o in campo lungo, la sua sagoma è una macchia bianca contro lo sfondo opaco. Robert e Eve, invece, sono immersi nel buio; i loro volti riflettono la poca luce che arriva dall’ingresso della caverna, ma attorno a loro tutto è immerso in fitte ombre.

Il complesso proiezione/protezione, in particolare quando include uno spazio fisico chiuso, si fonda su una porzione di spazio immersa nel buio e su una soglia luminosa – lo schermo. Così facendo, esso non solo crea un contrasto – gli spettatori al buio e lo spettacolo in piena luce – ma anche lo sfrutta appieno. La luce prevarrà sull’oscurità o l’oscurità resisterà all’attacco della luce? Lo spettacolo soverchierà gli spettatori o questi potranno continuare a godere di una posizione protetta? Il complesso proiezione/protezione esaspera la tensione tra i due poli. La sua «economia politica della luce», come Ruggero Eugeni definisce l’organizzazione del mondo dal punto di vista dell’energia luminosa, è profondamente conflittuale. Tuttavia – ed è la seconda cosa che il film ci dice – stare in piena luce non conferisce nessun vantaggio al cacciatore. Nella caverna, Robert e Eve rivolgono lo sguardo verso l’apertura, e vedono Zaroff avvicinarsi. Quest’ultimo, invece, non li vede; è visibile, ma è come cieco. Questa cecità rischia di compromettere il suo ruolo.

In quanto cacciatore, Zaroff dovrebbe essere capace di inquadrare il suo bersaglio, così come dovrebbe avere gli strumenti per colpirlo. Invece, quando scaglia la freccia con il suo arco, non può contare sulla sua vista. Ignora se ha colpito o no Robert, e può solo rivolgersi a lui verbalmente: “Esci di lì, Rainsford!” La freccia è sostituita dalle parole, ma anche in questo caso nessun suono esce dalla caverna. Zaroff non solo è cieco, è anche sordo. Tale doppio deficit potrebbe avere delle conseguenze pesanti, fino al punto da far scivolare Zaroff da cacciatore a preda. Comunque, per il momento gli fa rinunciare alla sua caccia per poterla riprendere in nuove condizioni e con nuovi mezzi. Robert, invece, vede e sente Zaroff, ben visibile davanti a lui.

Tale posizione potrebbe trasformare Robert da preda in cacciatore, ma anche se inquadra il bersaglio, Robert non ha i mezzi per colpirlo – possiede solo il coltello con cui ha allestito la trappola – né vuole scoprirsi uscendo dal buio. E quindi rimane preda. Ancora una volta, questa situazione chiarisce il tipo di esperienza prodotta dal complesso proiezione/protezione, soprattutto quando esso implica una chiusura fisica come è quella di un teatro. Abbiamo un confronto tra due componenti – lo spettacolo e gli spettatori – le cui qualità sono ribaltate: lo spettacolo si rivolge agli spettatori, ma non può prendere di mira il suo bersaglio; e gli spettatori sono pronti a impossessarsi dello spettacolo, ma sono in una condizione di ritirata. Ne consegue uno sbilanciamento che rende la partita in corso – una pericolosa partita – ancor più complicata: in essa, chi è veramente il cacciatore, e chi la preda?

In terzo luogo, ciò che potrebbe distinguere cacciatore e preda sono i loro strumenti. La situazione descritta in La pericolosa partita evidenzia la presenza di due tipi di armi, ciascuno dei quali pertiene a una delle due parti in gioco. Ci sono oggetti che trafiggono, come la freccia, le parole e lo sguardo, che prendono di mira la preda e la colpiscono; e ci sono strumenti che proteggono, come la caverna, l’oscurità e la trappola, che neutralizzano invece l’attaccante. Ci sono armi di attacco – una categoria che comprende oggetti fisici e segni sensoriali – e ci sono armi da difesa – anch’esse sia fisiche sia mentali. Le prime tuttavia qui non sembrano funzionare appieno: Zaroff scaglia la sua freccia al buio, e lancia parole nel vuoto. Quanto alle seconde, indubbiamente funzionano, ma non sono sufficienti a spostare gli equilibri. Di qui una situazione sospesa, che assomiglia a una sorta di falsa tregua. Nella caccia de La pericolosa partita, né il cacciatore né la preda possono prevalere. Il complesso proiezione/protezione riflette questa situazione: esso si basa su di una combinazioni di armi di attacco e di difesa in cui nessuna delle due riesce a garantire una vittoria. Gli spettatori sono sfidati dallo spettacolo: ma finché se ne stanno acquattati, possono posporre il confronto. La partita però ha anche un esito. Ciò che consente le conclusione – ed è la nostra quarta tappa – è un cambiamento di statuto dello sguardo.

Da un lato, nel film, lo sguardo fa parte di un arrangiamento che comprende la freccia, le parole e, in seguito, un fucile. Lanciare uno sguardo equivale a sparare un proiettile o a rivolgersi a qualcuno verbalmente: fanno tutti parte della balistica, come ha sottolineato John Durham Peters (in Casetti 2019, pp. 215-235.). Ed esattamente come la jungla in cui ha luogo La pericolosa partita, anche il mondo moderno in cui vivono gli spettatori del film è pieno di una molteplicità di elementi atti a colpire: oggetti così veloci da far male, eventi così imprevisti da traumatizzare, persone così aggressive da minacciare gli altri, e, appunto, stimoli così intensi da pungere. In questo mondo, di cui Walter Benjamin ha tracciato un ritratto prodigioso, le sensazioni visive – a partire da quelle che sono dirette agli spettatori dallo schermo – suscitano non una reazione di contemplazione, bensì di shock. D’altro lato, lo sguardo fa anche parte di un sistema di difesa contro questi shock. Gli individui devono imparare a proteggersi: la strategia migliore, come suggerisce Benjamin, consiste nell’accettare l’esposizione agli shock, e nell’usarli per mettere alla prova le proprie capacità di resistenza.

In questo contesto, è esemplare la trasformazione dello sguardo che sperimentano Zaroff e Robert: il primo perde la propria vista, il secondo la potenzia. Zaroff, il cacciatore, sulla soglia della caverna smette di vedere e lancia la freccia a casaccio. Robert è ancora preda, ma incorpora nella propria difesa l’attitudine del cacciatore. Rivolge il suo sguardo a colui che lo guarda aggressivamente, e impara (o reimpara) a come inquadrare un possibile bersaglio. Il senso profondo del suo confronto con Zaroff sta proprio qui: se è vero che i due uomini si impegnano in quello che alla fin fine è un duello («La caccia obbedisce alla classica struttura del duello», Kuntzel 1975, p. 87), questo troverà la sua soluzione non solo a partire dal conflitto, ma anche grazie a un cambiamento di rapporti di potere che ha al proprio centro la trasformazione dello sguardo da minaccia a risorsa. Guardare non sarà più un gesto aggressivo; diventerà un atto che aiuta a difendersi e a uscire dallo scacco in cui si è presi. Ancora una volta, è quello che succede in tutte le forme del complesso proiezione/protezione. Assemblando componenti che trafiggono e componenti che riparano, il complesso trasforma l’esposizione alle minacce nella possibilità di resistere a esse. Lo sguardo, come una spada in un duello, passa da arma di attacco ad arma di difesa. Gli spettatori vedono e imparano a resistere; e riacquistano potere contro gli shock che li mettono a dura prova.

Riferimenti bibliografici
C. Buckley, R. Campe, F. Casetti, Screen Genealogies. From Optical Device to Environmental Medium, Amsterdam University Press, Amsterdam 2019.
G. Deleuze, Che cos’è un dispositivo?, trad. it. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 2007.
R. Eugeni, Capitale algoritmico. Cinque dispositivi postmediali (più uno), Scholé/Moricelliana, Brescia 2021.
Th. Kuntzel, Savoir, Pouvoir, Voir, “Ça Cinema – Numéro spécial Christian Metz”, 2, 7-8, maggio 1975.

Francesco Casetti, Schermare le paure. I media tra proiezione e protezione, Bompiani, Milano 2023.

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