Non c’è sguardo più penetrante e malinconico di quello che Léa Seydoux presta alla protagonista dell’ultimo film di Mia Hansen-Løve, Un bel mattino. Una malinconia che emana dal profondo dell’animo del personaggio e parla di grandi vuoti, occasioni perse e un angoscioso senso di ineluttabilità, permeando l’atmosfera della pellicola. Per Sandra, vedova con una figlia, la mancanza di una vita sentimentale è compensata dalle amorevoli attenzioni per il padre Georg, affetto da una malattia neurodegenerativa che ne sta decretando il lento declino cognitivo.

Ex-professore e studioso di filosofia (tema caro alla regista), l’uomo si trova vittima di una «metamorfosi kafkiana», come lui stesso la definisce nel diario rinvenuto dalla figlia, che lo sta crudelmente privando della vista e delle facoltà cognitive, gli strumenti che erano stati il fulcro della sua esistenza di studioso, imprigionandolo in un corpo ormai estraneo, un guscio senz’anima. Non è dato sapere se la patologia possa essere di natura ereditaria (anzi, proprio la protagonista si rifiuta di investigare), ma poco importa, perché Sandra vive già in una simile condizione, intrappolata nella sensazione di una vita a volte oscura, incomprensibile, di cui anch’ella non riesce a prendere chiaramente il controllo.

Forse per questa ragione pare la sola, fra tutti i parenti, capace di comprendere la tragica condizione e provare una reale compassione per il padre. Uno svuotamento esistenziale dell’essere che affligge entrambi i personaggi, impossibilitati a sottrarsi ai ruoli assegnati loro dal destino. Certamente incapaci di appropriarsi della libertà di agency di cui gode la madre di Sandra ed ex-moglie di Georg, sorta di suffragetta moderna impegnata a prendere parte a folli e ridicole azioni di attivismo che paiono originare più da un  egoistico senso di autoaffermazione che da un vero sentimento politico. Una dichiarazione di libertà individuale forse segnalata in prima istanza dalla separazione dal marito.

Ma Sandra è il solo e unico centro emotivo e narrativo. Questa è la sua storia. Non c’è sequenza che non sia costruita per porla al centro dell’azione. La cinepresa si focalizza su di lei, seguendola nel corso di tutto il film. Un pedinamento dai toni zavattiniani che pare proprio voler eliminare qualunque effetto di spettacolarità per mettere in risalto l’aspetto ordinario e banale all’interno della complicata vita della donna, rivelandone i valori più intrinsecamente umani e vicini alla nostra esperienza.

Il paradosso di un’interprete che non riesce più a comprendere ciò che il padre le dice materializza la massima difficoltà del dramma di una donna la cui vita è segnata dal dolore della perdita, non primo caso nella filmografia di Hansen-Løve. A differenza delle sue predecessore, però, costrette a fronteggiare il trauma della perdita improvvisa, Sandra si trova ad affrontare il turbamento di una perdita lenta, inesorabile, che avviene ogni giorno sotto i suoi occhi, colpendo con la stessa forza del leopardo marino che disturberà il suo sonno. Il film si pone in un sorprendente dialogo diretto con Le cose che verranno (2016). Uno scambio di colpi tra le due pellicole che presentano situazioni e riflessioni analoghe, giungendo a volte alle medesime conclusioni, differendo in altre.

In maniera più evidente, laddove la perdita aveva costituito per la protagonista del film del 2016, Nathalie, anch’essa docente di filosofia, l’arrivo di un’inedita e inaspettata libertà; per Sandra essa rappresenta al contrario il ritrovarsi prigioniera di una vita di cui non ha il controllo, che la trascina tra i doveri di madre e di figlia. Non ultima, l’odissea alla ricerca di una casa di riposo per il padre che costituisca il giusto compromesso tra adeguata accoglienza e possibilità economiche, che reitera le considerazioni di Nathalie nell’affidamento della madre ad una simile struttura. Testimonianza dello svilimento dell’essere umano nell’ultima fase della sua vita all’interno di una società capitalista. Privato della meritata dignità poiché non più produttivo, diviene solo un problema contabile agli occhi del mondo, meramente oggettificato.

Il supplizio di Sandra trova un po’ di sollievo nella nascita della relazione amorosa clandestina con l’amico Clément. Un risveglio dal torpore dell’esistenza, ma anche dei sensi, di cui è ormai vittima da troppo tempo. Reviviscenza diegeticamente marcata dal sogno di quel leopardo marino di cui proprio Clément le aveva raccontato. Ma anche questa goccia di felicità nella tempesta della vita della protagonista è funestata dalla difficoltà dei compromessi necessari a condurre una relazione con un uomo sposato, intrappolato a sua volta tra un amore per il figlio che implica il tentativo di mantenere la stabilità del nucleo familiare, e l’amore passionale che lo riconduce sempre a casa di Sandra.

I pochi momenti felici nella vita della donna sono un’illusione tanto quanto la messinscena sul passaggio di Babbo Natale recitata dalla sorella e il cognato a vantaggio dei figli. Separati dal salotto da una porta che li priva della certezza testimoniale attribuita al senso della vista, i bambini accettano di credere alla pantomima affidandosi soltanto all’udito. Un contratto che decidono di sottoscrivere, una scelta cosciente di mettere in discussione il primato e lo statuto di affidabilità del senso della vista, dunque del dispositivo filmico, nella percezione della realtà. Questione che tocca da vicino Georg, privato della vista non per sua scelta, lamentando non a caso la difficoltà di percezione di una realtà oggettiva riferendosi alla visione continua di un film senza inizio e senza fine che non riesce a comprendere.

Ulteriormente, il mancato apprezzamento della sua musica favorita segnala ormai lo sprofondamento nell’impossibilità di affidarsi neppure al senso dell’udito. Un mondo che sta sfuggendo completamente alla sua comprensione. Come la figlia e i nipoti la sera di Natale, anche Sandra decide di credere a quei brevi momenti felici, sebbene siano effimeri, quasi fittizi. Due ore trascorse insieme a Clément. Il tempo condiviso con la figlia. La felicità del padre in presenza della compagna.

Un’ultima omologia con Le cose che verranno, forse la più potente, si manifesta nei momenti finali del film. Il primo si apre con una famiglia che osserva il panorama di Saint-Malo di fronte a sé, seguito dalla visita alla tomba di Chateaubriand. Una volta lasciato il monumento funebre,  ogni membro, separatamente, sulla sua inquadratura fissa il titolo del film, «L’Avenir». Un monito, sinistro presagio del futuro che attende la protagonista. Un bel mattino termina analogamente con una famiglia (più o meno propriamente detta) che a sua volta osserva un panorama, questa volta di Parigi, apparentemente unita e spensierata, mentre il titolo si presenta in sovrimpressione. Una nota di speranza per Sandra, che questo breve momento di serenità possa essere l’inizio di una ritrovata felicità. Un mattino che introduce la luce nelle grigie giornate dell’esistenza della donna.

Riferimenti bibliografici
C. Zavattini, Opere 1931-1986, Bompiani, 2001.

Un bel mattino. Regia: Mia Hansen-Løve; sceneggiatura: Mia Hansen-Løve; fotografia: Denis Lenoir; montaggio: Marion Monnier; interpreti: Léa Seydoux, Melvil Poupaud, Pascal Greggory, Nicole Garcia; produzione: Les Films Pelleas, Razor Film Produktion, Arte France Cinéma; distribuzione: Teodora Film; origine: Francia, Germania; durata: 112’; anno: 2022.

Share