L’uscita della raccolta completa degli scritti sulla televisione di Umberto Eco, curata da Gianfranco Marrone, è stata accompagnata da una piccola ma significativa polemica. Aldo Grasso ha scritto che «il momento meno interessante della ricerca [di Eco] sulla tv è quello legato agli studi semiotici», in quanto la semiotica, fondata per interpretare le differenti pratiche della significazione, «ha finito per interpretare solo sé stessa». Si tratta di un attacco perfido al curatore della raccolta: nella sua postfazione infatti Gianfranco Marrone argomenta che i progressi della ricerca semiotica e lo sviluppo degli studi sulla televisione in Italia sono intimamente legati. A Grasso ha risposto Tiziana Migliore: la natura della semiotica è etero-centrata, tesa a «guardare a fondo la superficie spessa delle cose». Grasso replica, e la polemica potrebbe continuare (ed è effettivamente continuata nelle presentazioni del libro).

Vorrei partire dalla domanda che sta alla base del dibattito: esiste una specificità della semiotica nella considerazione dei fenomeni di comunicazione e di comunicazione mediata? E, in caso positivo, si tratta di una specificità ancora attuale e utilizzabile? Leggerò in tal senso la storia dei rapporti tra Eco e la televisione come un apologo che permetta di cogliere logiche e destini di una avventura intellettuale di cui siamo che ci piaccia o no gli eredi.

Come è noto il primo approccio di Eco alla televisione è di taglio estetico e si colloca tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta (quello professionale è leggermente anteriore: l’esperienza in RAI si stende nel corso degli anni cinquanta). In Il caso e l’intreccio. L’esperienza televisiva e l’estetica (1956) Eco vede nella diretta lo “specifico” del medium televisivo; questo aspetto accomuna potenzialmente la televisione all’opera aperta, al Nouveau Roman, ai film di Antonioni: in breve alla modernità dei plot in cui si rompe il nesso rigido causa effetto. Potenzialmente: perché di fatto il lavoro di montaggio lavora in senso diametralmente opposto, a colmare i vuoti e ricucire le smagliature del racconto. La televisione finisce così per costruire ed esaltare il banale, come ben delinea il famoso Fenomenologia di Mike Bongiorno (1961).

Proprio questo aspetto “ovvio” della televisione interessa Eco (anche se, e qui Grasso ha ragione, certo non lo appassiona più di tanto). E proprio per smontare questa ovvietà Eco ricorre alla metà degli anni sessanta alla strumentazione semiotica: si veda Per una indagine semiologica sul messaggio televisivo, nato come progetto di ricerca a più mani per un Convegno a Perugia nel 1965. Nel passaggio dall’approccio estetico a quello semiotico si trasforma anzitutto l’apparato concettuale e terminologico: Eco e i suoi compagni di avventura adottano il lessico strutturalista del messaggio, dei codici, dei sottocodici e della loro organizzazione sistematica. Ma, più profondamente, cambia la tattica di approccio al mezzo televisivo: alla sfiducia circa le capacità creative dell’emittente già manifestata in precedenza, si affianca ora la fiducia in una nuova possibilità di rielaborazione demandata alle audiences e basata sul principio della “decodifica aberrante”. Le possibili distorsioni interpretative degli spettatori vengono considerate inevitabili, e assunte come potenziale positivo. Non casualmente al saggio più tecnico segue un intervento engagé come Per una guerriglia semiologica (pronunciato a New York nel 1967). Chi annusa in queste affermazioni una anticipazione della posizione di Stuart Hall non sbaglia: “Encoding and decoding in the television discourse” verrà presentato nella sua prima versione nel 1973.

Questa posizione rimane stabile nella riflessione di Eco anche nella fase successiva, in cui lo studioso supera una semiotica di prima generazione concentrata su messaggi e codici per giungere a una semiotica del testo e della cultura. Come ben sottolinea Marrone, la televisione ha rivestito un ruolo decisivo nell’incoraggiare e orientare tale passaggio: proprio questa sensibilità tiene infatti Eco distante da una semiotica troppo tecnica e astratta quale quella greimasiana, e contribuisce alla fondazione di quella semiotica pragmatica e interpretativa che rappresenta il suo contributo più originale alla disciplina. Un saggio fondamentale è sotto questo aspetto Il pubblico fa male alla televisione? (una relazione al Prix Italia del 1973) in cui Eco aggiorna concetti e lessico (anche mediante una autocritica: non c’è niente di “aberrante” in una decodifica che non segua le direttive del Testo), esplicita alcuni aspetti gramsciani del suo pensiero (il rapporto tra culture egemoni e subalterne), dialoga molto con il saggio di Paolo Fabbri (2018) appena uscito sul rapporto tra semiotica e sociologia, e in sostanza riafferma il ruolo specifico della semiotica in una comprensione non semplicemente dei fenomeni quanto piuttosto del loro funzionamento interno.

Questo sguardo permette quindi a Eco di cogliere due trasformazioni chiave della televisione all’inizio degli anni ottanta. Il primo fenomeno è il passaggio dalla Paleo-televisione alla Neo-televisione: la televisione da dispositivo di registrazione degli eventi si presenta ora come macchina di produzione degli eventi e dunque mette in scena spudoratamente se stessa e proprio pubblico (“Neotelevisione La trasparenza perduta”, del 1981). Il secondo fenomeno è l’avvento delle nuove forme della fiction seriale, delle quali lo studioso ricostruisce tipologie e genealogie (“L’innovazione nel seriale”, relazione a uno storico Convegno di Urbino organizzato da Francesco Casetti nel 1983).

Interrompo qui l’apologo del rapporto tra Eco e la televisione. Non perché la produzione successiva non sia interessante: pur scrivendo meno di televisione, e in modo più frammentario (in genere ne La bustina di Minerva su L’Espresso), Eco affronta alcuni nodi importanti della televisione-verità degli anni novanta e della post-televisione degli anni zero. Mi pare però che il tragitto che ho ricostruito sia sufficiente per rispondere alla questione che ho posto inizialmente: esiste, e in cosa consiste eventualmente una specificità degli studi semiotici? Mi sembra che la risposta possa essere la seguente: la semiotica lascia ad altri una descrizione dei fenomeni comunicativi e dei dispositivi che li rendono possibili, e si interroga piuttosto sulle condizioni di funzionamento di quei fenomeni e di quei dispositivi. La sua domanda non è “cosa è un dispositivo?”, ma piuttosto “come funziona esattamente un certo dispositivo?”; e quindi immediatamente: “come è possibile hackerare il meccanismo di quel dispositivo e deviarne il funzionamento verso esiti inaspettati e inattesi?”. In questa inquietudine situazionista, in questa natura (dice Fabbri in apertura del saggio citato) non di “ars inveniendi” ma di “ars interveniendi” sta l’originalità del progetto semiotico e la sua attualità (la sua necessità) intellettuale e politica.

Riferimenti bibliografici
R. Barthes, L’ovvio e l’ottuso: Saggi Critici III, Einaudi, Torino 1985.
U. Eco, Sulla televisione. Scritti 1956-2015, a cura di Gianfranco Marrone, La Nave di Teseo, Milano 2018.
P. Fabbri, Le comunicazioni di massa in Italia: sguardo semiotico e malocchio della sociologia, a cura di G. Marrone, Luca Sossella Editore, Roma 2018.

*In copertina un’opera di Tullio Pericoli.

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