Come in un qaddish di sepoltura, nelle prime pagine di Ucraina senza ebrei Vasilij Grossman ricorda che cosa vuol dire vedere scomparire un popolo (narod). È un elenco interminabile di professioni, di maestri artigiani, di operai, di fornai, di mugnai, di professori, di ingegneri, di agronomi, di maestre, di sartine, e poi di nonne che cucinano torte e fanno la calza e di giovani studentesse che si affacciano alla vita, di vecchi con la cataratta e di neonati urlanti, attaccati al seno della madre. È un elenco interminabile, dietro il quale si intuisce il desiderio di Grossman di andare ancora più a fondo, di ricordare i sommersi a uno a uno, cercando di recuperarne il nome, un gesto, un alito vitale. È un elenco che si conclude con una sentenza inaggirabile: «Li hanno uccisi tutti, centinaia di migliaia, milioni di ebrei ucraini» (ivi, p. 16).

Difficile sottovalutare l’importanza di questo reportage giornalistico, scritto da Grossman nell’autunno del 1943, mentre con l’Armata Rossa attraversava l’Ucraina, liberata dai nazisti. Il 12 ottobre aveva pubblicato, per il giornale militare Krasnaja Zvezda (Stella rossa), un articolo intitolato Ucraina, nel quale descriveva l’eccidio compiuto a Kozary, un villaggio a 100 kilometri a nord di Kiev. Tutti gli abitanti del villaggio, anche i vecchi e i bambini, erano stati uccisi, come rappresaglia nazista per delle attività partigiane. Poche settimane dopo, ritorna sugli eccidi nazisti, ma proponendo quello che è il primo sguardo articolato in terra sovietica sullo sterminio degli ebrei. Il silenzio non è più soltanto a Kozary, ma a Poltava, a Char’kov, Borispol’, Jagotin’, nelle migliaia di villaggi spersi per l’Ucraina: non ci sono più ebrei da nessuna parte. Un popolo scomparso. Questo scritto, preparato di nuovo per Stella rossa, fu rifiutato e trovò spazio su riviste con distribuzione molto più limitata: in forma ridotta in russo, il 28 novembre, su Za Rodinu (Per la patria) e tradotta in yiddish in due parti (25 novembre e il 2 dicembre) su Eynikeyt (Unità), il settimanale del Comitato ebraico antifascista. Il testo, dimenticato per decenni, è riemerso negli anni della perestrojka ed è stato dato alle stampe nella sua versione originale su una rivista di Riga, VEK, nel 1990.

Ucraina senza ebrei ha in primo luogo il compito di aprire gli occhi sulla specificità della persecuzione degli ebrei, all’interno di un contesto, quello sovietico, che piuttosto tendeva a leggere la violenza nazista come uniformemente rivolta contro i cittadini sovietici. Durante gli anni di alleanza con Hitler, alla stampa sovietica era inoltre stato imposto il silenzio sulle persecuzioni degli ebrei nell’Europa orientale, così da ingannare indirettamente gli ebrei bielorussi e ucraini, ignari di che cosa avrebbe significato per loro l’invasione nazista. Pochi mesi dopo Grossman scriverà L’inferno di Treblinka (1944), uno dei primi resoconti sulla struttura concentrazionaria nazista, usato anche dall’accusa al processo di Norimberga. Soprattutto sarà, con Il’ja Erenburg, uno dei principali autori di un Libro nero, pensato per denunciare lo sterminio degli ebrei nei territori occupati dai nazisti.

Tra il 1943 e il 1944 in Unione Sovietica nacquero due commissioni. La prima era direttamente legata al Comitato antifascista ebraico (EAK) e rivolta a raccogliere materiale da usare come atto di accusa in sede giudiziaria; e difatti tale materiale sarà usato a Norimberga. Una seconda commissione, coordinata da Erenburg, con propositi più “letterari”, pensava l’opera soprattutto per una pubblicazione in Unione Sovietica, da usare come strumento di lotta contro l’antisemitismo interno. Senza addentrarci nella ricostruzione dettagliata delle vicende editoriali del Libro nero, basti dire che a pochi mesi dalla fine della guerra, ogni tentativo di testimoniare la specificità della Shoah sarà letto dal potere sovietico come espressione del “particolarismo ebraico” e per questo censurato. L’edizione sovietica di Erenburg e Grossman sarà perciò bloccata in via definitiva, nell’ottobre 1947, dal Comitato centrale, in concomitanza con lo smantellamento dell’EAK: era l’uomo sovietico in quanto tale ad aver subito l’aggressione nazista.

Ucraina senza ebrei delinea invece la specificità della vittima ebrea, del popolo «sparso in tutti gli Stati del mondo». Perseguitando tale popolo, il nazismo dichiara guerra a tutti i popoli del pianeta. Non solo. Il nazismo, creando una scala dell’oppressione dei popoli, ha perciò messo gli uni contro gli altri. Ogni popolo si consola, vedendo chi sta peggio, mentre l’intera scala è terrorizzata dalla possibilità di essere condannata al baratro del non-essere al quale è stato costretto il popolo ebraico. Più specificatamente, sterminando gli ebrei davanti gli occhi degli ucraini, costretti alla vita da forzati, li ha da una parte “consolati” per non essere stati destinati a tale sorte, e al contempo ha cercato di far credere loro che tutte le loro tragedie siano dovute alla presenza degli ebrei sul proprio territorio (ivi, p. 47). Ecco emergere perciò il primo nodo centrale di Ucraina senza ebrei, quello storiografico: la memoria della Shoah in terra sovietica (e post-sovietica), stretta da una parte dal rifiuto del potere comunista a riconoscere la Shoah come evento distinto, tanto più se l’identità sovietica trovava un nuovo mito fondatore della cittadinanza sovietica nella Grande Guerra Patriottica, che “assimilava” tutte le differenti forme di violenza perpetrate dai nazisti; e dall’altra dalle questioni delicate dell’antisemitismo circolante in una parte importante del gruppo dirigente del Partito bolscevico e del collaborazionismo nelle repubbliche ex-sovietiche, dai paesi baltici all’Ucraina.

Intorno a questo nodo, Ucraina senza ebrei, pur con tutta la provvisorietà di un reportage, fissa alcuni concetti. Esiste un popolo, quello ebraico, che non si riduce alla proiezione del nazista, alla costruzione del nemico, come invece in quegli anni teorizzava Sartre nelle sue Riflessioni sulla questione ebraica (1946), scontando una grave ignoranza della storia e della cultura ebraiche e irretito dalle analisi di Hegel e di Renan sul «popolo senza storia» (Traverso 2004, p. 213). Sartre quasi ignorava l’ebraismo dell’Europa orientale e fissava la sua immagine su quella dell’ebreo occidentale assimilato ma sradicato, cosmopolita e anazionale: l’incarnazione della modernità e del razionalismo astratto, secondo un’immagine stereotipata che da Édouard Drumont (La Francia giudaica, 1886) arrivava a Werner Sombart (Gli Ebrei e la vita economica, 1911) e Pierre Drieu la Rochelle. L’ebreo in Sartre finiva quindi essere delineato tramite le forme dell’immaginario antisemita, producendo il paradosso di un saggio scritto per combattere l’antisemitismo, ma con strumenti concettuali che riducevano l’ebreo a emblema di una modernità che a sua volta era interpretata come affermazione di intelligenza, astrazione, spirito calcolatore.

Nello scritto di Grossman invece il popolo ebraico in Ucraina precede l’arrivo dei nazisti, ha una sua storia e una sua identità, «un nobile retaggio di fatica», un insieme di ricordi e di usi quotidiani, finanche di barzellette tramandate di padre in figlio e di canzoni. La domanda sull’identità ebraica del resto Grossman la stava conducendo dal suo primo racconto importante, Nella città di Berdičev (1934), dedicato alla sua città natale, e aveva trovato spazio in un suo confronto serrato negli anni trenta con alcuni autori romantici soprattutto tedeschi, in particolare Herder, studiosi del tema della nazionalità, come testimoniato da alcuni suoi taccuini compilati tra il 1931 e il 1949 (mi riferisco ai Nemnogie zapiski, presenti in una collezione dell’Università di Harvard; cfr. Savadivker 2013). L’ebreo ucraino non è soltanto una proiezione dell’altro da sé, ma ha una sua identità, che non è di marca razziale, ma etnico-culturale. A sua volta, quello che il nazista riconosce nell’ebreo (ucraino o di altra provenienza), quello che è la sostanza dell’antisemitismo, è proprio un fenomeno di proiezione: «Il popolo ha capito che tutti i crimini di cui i tedeschi accusavano gli ebrei erano i crimini dei tedeschi stessi, e che l’idea di dominare il mondo, il razzismo sanguinario, il disprezzo e l’odio per tutti i popoli di questa terra li aveva portati il fascismo» (p. 62; nella cultura sovietica, il termine fascismo è usato anche in riferimento al nazionalsocialismo tedesco).

Grossman già Nella città di Berdičev si chiedeva se fosse possibile la conciliazione tra l’universalismo della Rivoluzione e l’identità ebraica, tra la marcia del logos rivoluzionario verso il futuro e lo sguardo colmo d’attenzione del mondo ebraico verso il microcosmo famigliare e i suoi intrecci con il passato. Per inciso, è la domanda che riprenderà uno dei film più importanti degli anni del Disgelo, La commissaria (Askol’dov, 1967), ispirato a quel racconto di Grossman, ma inserendo nel tessuto narrativo una prefigurazione della Shoah, così da mettere in urto il logos rivoluzionario e la sua idea di emancipazione non soltanto con il cosiddetto “particolarismo ebraico” e il suo culto della memoria, ma anche con lo sterminio e la sua sofferenza non superabile dialetticamente. Il film ovviamente sarà censurato e soltanto con molta fatica riuscirà a riemergere negli anni delle perestrojka.

Il secondo nodo che Ucraina senza ebrei propone è quello estetico: quale memoria rispetto allo sterminio del popolo ebraico e che rapporto stabilire con l’immaginazione narrativa? Su questo punto, Grossman entrò in conflitto con Erenburg, nella preparazione del Libro nero. Erenburg intendeva mantenere i documenti nella loro forma originaria, concependo il proprio lavoro come quello di un montatore, mentre Grossman insisteva per una maggiore rielaborazione, volta a dare voce anche ai sommersi: «Tutti i materiali di cui disponiamo sono racconti di persone che si sono salvate per miracolo. Ma noi dobbiamo assumerci ancora un altro compito: parlare a nome di coloro che giacciono nella terra e non possono dire nulla» (Salomoni 2007, p. 164). Già nel 1943, con il racconto Un vecchio maestro (ora nella raccolta Il bene sia con voi!), Grossman riutilizza brani del suo reportage per raccontare, tendendo «l’orecchio ai rumori della vita», la scomparsa degli ebrei da un villaggio, l’indifferenza nazista, le forme vili di collaborazione, ma soprattutto i piccoli gesti di bontà, che rivendicano l’unicità dell’essere umano. La lezione di Čechov, esplicitamente richiamato nel racconto, si sposa nel dittico su Stalingrado, Per una giusta causa (Stalingrado, nella recente nuova traduzione) e Vita e destino, con il respiro epico di Tolstoj e con i dialoghi sui “problemi maledetti”, tipici del romanzo d’idee di Dostoevskij.

Grossman, nel rispondere al problema della testimonianza dei sommersi, evocata nel confronto con Erenburg, nelle sue opere maggiori riprenderà perciò la lezione dei classici dell’Ottocento, proprio per poter arrivare con il lavoro dell’immaginazione lì dove la memoria testimoniale non può entrare. Qui si apre una questione al contempo etica ed estetica, che ha trovato soluzioni diverse in opere come quelle di Šalamov (I racconti di Kolyma) e di Solženicyn (Arcipelago Gulag) i quali, nel raccontare l’universo concentrazionario, hanno deciso di imporre al lavoro dell’immaginazione il limite appunto della memoria testimoniale, proprio in quanto il centro dell’azione di quell’universo non è l’eroe tragico o comico, attorno al quale si ricompone la comunità e nel quale perciò si può ritrovare il logos che sottostà al nostro mondo-in-comune e trova riflesso nell’immaginazione. Nell’universo concentrazionario, il centro è l’uomo messo al bando, e quindi l’immaginazione non può arrogarsi la pretesa di poter ricondurre sotto il proprio logos chi che da tale comunità è stata escluso.

Il più radicale è Šalamov, che in alcuni suoi scritti teorici sostiene la morte del romanzo e la necessità di una nuova prosa, che metta al centro il tema del campo, dell’annientamento dell’uomo orchestrata dallo Stato; una prosa in grado di descrivere la psicologia dell’uomo ridotto allo stato animale, senza farsi “distrarre” dal tema della guerra e dagli inganni della finzione romanzesca (Chalamov 1993, p. 43). Una lezione ripresa in tempi recenti da Svetlana Aleksievič che, nel suo discorso di accettazione del premio Nobel, ricorda il proprio maestro Adamovič, il quale sosteneva l’impossibilità di scrivere romanzi sugli incubi del Novecento: «Inventare non si può. La verità va offerta tale e quale. Serve andare oltre la letteratura. A parlare devono essere i testimoni» (Aleksievič 2015, p. 21).

Rispetto a Šalamov, il centro dell’universo narrativo di Grossman rimane però la guerra. E del resto, l’esperienza del primo è quella di un sopravvissuto dei campi, di contro a quella di un testimone di guerra e di un mondo scomparso, quello della propria infanzia di ebreo ucraino. E per ricordare quel mondo senza testimoni, Grossman rivendica la necessità di poter immaginare; immaginare anche i pensieri e i sentimenti e i piccoli gesti di resistenza al disumano, da parte di coloro che sono stati condotti verso il proprio annullamento, come la stessa madre di Grossman, deportata da Berdičev nel 1941, con i nazisti entrati in città il 7 luglio, e a cui Grossman sembra voler ridare voce tramite la lettera di Anna Semenova al figlio Viktor Pavlovič Strum in Vita e destino, che difatti inizia raccontando l’entrata in città il 7 luglio (Grossman 2008, pp. 69-78). Anche nella marcia verso la morte del vecchio maestro, c’è sempre un barlume di umanità, come quello della piccola Katja, che gli copre gli occhi con le manine (Grossman 2011, p. 40). I campi sono l’estremo, ma sarebbe a sua volta sottomettersi a quella logica di cancellazione delle singolarità, se non si raccontasse anche l’enorme varietà di situazioni e di comportamenti e di idee che la guerra tra i due regimi ideocratici ha messo in evidenza.

La reazione di Grossman al silenzio degli ebrei in Ucraina, alla loro cancellazione, sta nel continuare a mostrare che nessun uomo assomiglia a un altro. «Ciò che è vivo, non ha copie» (Grossman 2008, p. 13). Anche lì dove si vuole ridurre l’uomo a replica infinita di un’idea, a pezzo all’interno di una fabbrica di distruzione, la vita continua a mostrare la sua polifonia irriducibile. E lì dove non ci rimane che cenere, il silenzio di chi è stato sommerso, per Grossman bisogna provare a ridar loro quella voce che è stata cancellata, come accenna in conclusione di Ucraina senza ebrei: «Ma se per un attimo quel popolo potesse tornare in vita, se la terra si aprisse nel burrone di Babij Jar a Kiev e intorno al memoriale di Ostraja Mogila a Vorošilovgrad, se un grido lancinante si staccasse da quelle centinaia di migliaia di labbra piene di terra, l’Universo intero tremerebbe» (ivi, p. 63).

Riferimenti bibliografici
S. Aleksievič, Una battaglia persa, Adelphi, Milano 2022.
V. Chalamov, Tout ou rien, Verdier, Paris 1993.
V. Grossman, Il bene sia con voi!, Adelphi, Milano 2011.
Id., L’inferno di Treblinka, Adelphi, Milano 2010.
Id., Stalingrado, Adelphi, Milano 2022.
Id., Vita e destino, Adelphi, Milano 2008.
Id., I. Erenburg, Il libro nero, Mondadori, Milano 1999.
A. Salomoni, L’Unione Sovietica e la Shoah. Genocidio, resistenza, rimozione, Il Mulino, Bologna 2007.
J.P. Sartre, L’antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica, Mondadori, Milano 1990.
P. Savadivker, Vasilii Grossman: A cosmopolitan writer depicts the murder of the Jewish people, in «Journal of European Studies», 43/4, 2013, pp. 283-298.
E. Traverso, Auschwitz e gli intellettuali. La Shoah nella cultura del dopoguerra, Il Mulino, Bologna 2004.

V. Grossman, Ucraina senza ebrei, a cura di C. Zonghetti, Adelphi, Milano 2023.

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