«Voglio guardare da vicino. Anche a costo di perdermi qualcosa» (Giartosio 2023, p. 163) scrive Tommaso Giartosio nella ventitreesima e ultima lettera ad Antonio, l’interlocutore nascosto di cui sappiamo solo quello che possiamo evincere dalle lettere di questo libro epistolario. Quest’ultima si intitola “Quello che non abbiamo visto”, lo stesso non visto del titolo di Tutto quello che non abbiamo visto. Un viaggio in Eritrea (Einaudi 2023). In ogni esperienza, in effetti, quello che conta è proprio il non visto, ossia ciò che permette di vedere tutto il resto, ma senza il quale non ci sarebbe stato nulla da vedere. Perché il fuoco del visibile è sempre nascosto, e proprio perché nascosto accende la fantasia e il desiderio di chi non si stanca di osservare il mondo. In questo senso il libro di Giartosio è un libro di viaggio, ma forse e soprattutto è una sorta di riflessione su cosa significhi, oggi che tutto sembra sempre accessibile e appunto visibile, fare esperienza di qualcosa – in questo caso l’Eritrea – che è lontano, che è radicalmente lontano dal nostro sguardo. Com’è possibile vedere, e quindi comprendere, qualcosa che non abbiamo mai visto, ma di cui comunque abbiamo qualche notizia?
In effetti l’Eritrea, per un italiano, rappresenta il caso esemplare di un luogo lontano e diverso, ma anche stranamente familiare, ché l’Eritrea è stata una colonia italiana. È il primo punto da rimarcare: l’altro, l’estraneo, il diverso in realtà non lo è mai davvero, così come l’Eritrea, per un italiano, rappresenta il proprio passato rimosso. C’è dell’Eritrea in ogni luogo esotico, che quindi non è mai davvero esotico. Per questo, allora, possiamo fare esperienza dell’altro, perché non è radicalmente altro. Nell’altro c’è sempre qualcosa di noi. Solo per questo possiamo fare esperienza di ciò che non conosciamo. Allo stesso tempo l’altro non smette di essere diverso da noi, perché, come scrive Giartosio all’inizio del libro, «si viaggia […] per uno sguardo, una visione binoculare che incrocia intelligenza e stupore, e che possiamo anche chiamare ammirazione» (ivi, p. 5). L’esperienza possibile di qualunque Eritrea del mondo (anche e forse soprattutto di quelle casalinghe), da un lato richiede allora di scoprire che l’altro, in realtà, non è mai radicalmente altro, ma richiede anche di scoprire che l’altro è comunque altro, e solo per questo lo possiamo ammirare. L’esperienza è questo scarto, fra sapere troppo e sapere troppo poco. È quella condizione che Giartosio chiama «esperienza del non esperto»:
Antonio, cos’è il racconto di viaggio? Secondo me è l’esperienza del non esperto: definizione che ne racchiude la forza e il limite. Da profano che ha solo letto si è limitato a leggere qualche libro, posso solo raccontare quello che ho veduto (sentito, toccato, mangiato). La mia non è una visione senza filtri, anzi risente di innumerevoli pregiudizi soggettivi e limitazioni oggettive, per non parlare delle vere e proprie censure. Però questa visione è un evento reale; un’immagine fallace ha assunto una provvisoria completezza, qualcosa è stato visto, una forma che va al di là delle mie informazioni: I have had my vision. Poi, certo, provo a interpretarla, a farmi un’idea – un’altra immagine (ivi, pp. 37-38).
Anche se non siamo mai stati in Eritrea sappiamo comunque che fino a pochi anni fa l’Italia aveva a che fare con quel posto lontano. È probabile che a scuola non si sia studiata la vicenda coloniale italiana, però forse qualche nonna ne ha parlato a casa, oppure si sarà visto sui banchi di un mercato dell’usato qualche immagine ingiallita di un posto polveroso, di persone con la pelle scura. Qualcosa si sa, sempre. Da questo “qualcosa” comincia l’esperienza, per definizione limitata (ma quale esperienza non lo è? Non è forse la limitatezza la caratteristica distintiva di ogni esperienza?), ma non per questo meno significativa. E se quindi l’esperienza riguarda la conoscenza possibile di un luogo o una persona – un processo che richiede tempo e attenzione – allora ciò di cui si farà esperienza sarà, come l’Eritrea per Giartosio, qualcosa di esteso: «L’Eritrea stessa», infatti, «è un paese fatto di spazio» (ivi, p. 12).
Certo, è la “vera” Eritrea che è piena di cielo e di vastità, ma ogni Eritrea è fatta di spazio, perché per poter fare esperienza di qualcosa occorre attraversarlo, occorre appunto percorrerne lo spazio: «Era come in quel romanzo di Adriàn Bravi che racconta un viaggio in macchina attraverso la pampa: dopo molte ore di viaggio attraverso una distesa grigia e brulla, il giovane italiano chiede all’autista locale: “Ma come si fa a vivere in questo deserto?” E l’altro risponde: “Quale deserto?” Il deserto è relativo; lo spazio che sembra omogeneo è in realtà segnato, per chi ci vive, da zone, passaggi, cicatrici, punti di riferimento. E questo ci sta, questo è naturale» (pp. 17-18; il romanzo di Bravi si intitola L’idioma di Casilda Moreira). Imparare a non essere un esperto (o, e forse è meglio, disimparare l’esperienza passata), è questa l’unica sapienza che si chiede a chi cerchi di fare esperienza di qualcosa. E così si impara a vedere la vita del deserto, ad esempio, ossia a non vedere quello che credevamo di sapere del deserto, che fosse appunto privo di vita. In questo modo l’altro potrà mostrarsi per quello che è, un altro che è simile a noi, e che è simile a noi proprio perché non è come noi:
Fondamentalmente l’accoglienza nasce da una postura di attenzione per lo straniero tout court. È questo il punto. In qualsiasi luogo ci presentiamo senza il minimo preavviso, veniamo subito ricevuti come principi, e non parlo solo della condivisione del poco e del pochissimo ma anche di una cortesia non formale… be’, la cortesia è sempre formale, ma lí senti che si nutre di una presunzione di valore. La vecchia massima – in Eritrea ancora attiva – per cui ‘l’ospite è sacro’, cioè potenzialmente divino (come gli dèi greci che assumono veste umana quando si presentano ai mortali), significa che non è uno come te, o meglio non è soltanto un “te” svantaggiato perché si trova fuori casa, inesperto dei luoghi (e già solo per questo dovresti aiutarlo); è anche altro da te, diverso, alieno e proprio per questo vale. Puoi cercare dei punti in comune, è bello farlo, ma in fondo è anche necessario che rimanga altro, che ti sia testimone e interprete di altre forme di umanità. Che ti faccia stupire, che ti faccia sognare (ivi, pp. 67-68).
Ma che cos’è, infine, che ci stupisce e ci fa sognare? Che cos’è che cerca l’esperienza? Perché arrivare fino in Eritrea? È questo, in fondo, il tema del libro di Giartosio. Vediamo e fotografiamo il mondo, ma non perché non siamo più capaci di prestare attenzione a quello che vediamo, al contrario, perché cerchiamo quel “non visto” che non smette di inquietarci. In effetti, che cos’è che non riusciamo a vedere in tutto quello che vediamo e non ci stanchiamo mai di vedere? Vediamo – per rimanere all’Eritrea di Giartosio – quello che sappiamo, o crediamo di sapere, dell’Eritrea, e tuttavia sappiamo benissimo che quel che riusciamo a vedere non è quello che ci sarebbe davvero da vedere. Perché se lo possiamo vedere noi, che siamo stranieri e non sappiamo niente dell’Eritrea, allora quello che possiamo vedere in realtà non vale nulla. Eppure, ed è questo il punto verso cui convergono le pagine di questo libro, è proprio in quella incolmabile distanza fra visibile e invisibile che sta la “verità” dell’esperienza. In questo luogo impensabile, perché ogni pensiero paradossalmente allontana la verità, ecco proprio lì il mondo appare – quel mondo che suscita solo “ammirazione” – allo stesso tempo luminoso e buio. Lì finalmente siamo nel posto giusto, quello che cerchiamo in Eritrea, e in tutte le Eritrea del mondo:
È per questo che il nostro viaggio mi è sembrato un’immersione nel reale. Quando mi sono addentrato nel letto del torrente in secca che ospita il grande mercato di Cheren, e ho visto appoggiati contro l’argine tanti grandi fasci di fusti di legname alti quattro-cinque metri, e ho notato uno stretto passaggio tra i tronchi, e sono entrato, e mi sono trovato in uno spiazzo di pochi metri quadri circondato da una foresta di fusti profumati di resina alti come cipressetti, e tre giovani legnaioli barbuti, uno con la kefiah, uno col berretto da baseball, uno a capo scoperto, si sono voltati contemporaneamente verso di me, e ho visto che avevano inarcato i fastelli di sambuco e li avevano annodati con filamenti di bambù, e così si erano fatti un riparo con lo stesso legname che vendevano, e che questo ricovero era sufficiente a dare ombra a un pagliericcio dove se ne stavano seduti a bere del tè rovente, che si dice “shai”, e mi hanno fatto sedere e offerto dello shai, e mi hanno detto il nome tigrino del sambuco, e li ho capiti, perché in tigrino “sambuco” si dice sambuco, e loro mi hanno detto di essere “Islam”, e mi hanno detto “Quran”, ed io mi sono ricordato la parola araba per libro e ho detto “kitab”, e loro hanno cominciato a parlarmi sorridendo della bellezza del Corano, suppongo, e io ho rilanciato puntando il dito sul pagliericcio e ripetendo molte volte ‘laila, laila’, ‘notte, notte’, perché mi ricordavo che il libro delle Mille e una notte si chiama Kitab alf-laila wa-laila, e quest’unica parola araba che mi era venuta in mente dovevo pur giocarmela in qualche modo, e loro si sono chiesti, suppongo, perché diavolo dicessi “notte” e indicassi il letto, se per caso volessi farmi un pisolino a mezzogiorno inoltrato, e hanno alzato le palme delle mani, che avevano quella ruvidezza compatta e rigata di certe cortecce che è quasi una morbidezza, e hanno sorriso ancora di più, perché è cortesia sorridere ai dementi, ecco: tutto il mio temibile feticismo orientalista e neorealista (che c’è davvero) non mi ha impedito di sentire che stavo davvero toccando qualcosa di molto comune all’umanità, e molto reale (ivi, pp. 108-109).
Tommaso Giartosio, Tutto quello che non abbiamo visto. Un viaggio in Eritrea, Einaudi, Torino 2023.
*Le immagini presenti nell’articolo e in anteprima sono foto di Tommaso Giartosio.