A partire dalla metà degli anni cinquanta si producono in Italia le condizioni per quello che negli anni sessanta sarebbe stato definito “boom economico”: l’esplosione dei consumi di massa, l’avvento del benessere diffuso. Il paese conosce una rivoluzione senza pari; il mercato ribolle, l’entusiasmo dilaga irrefrenabile.

Se nell’epoca della fantasmagoria della merce, come insegna Walter Benjamin, le immagini – sempre più svincolate dagli oggetti che dovrebbero, secondo una prospettiva classica, costituirne i referenti – plasmano il desiderio collettivo, è proprio nelle immagini, e nelle immagini cinematografiche in particolare, che si dovranno scoprire le tensioni che la mitologia del miracolo economico produce e, allo stesso tempo, dissimula.

Francesco Lalli, nel suo Tutto quel giallo (Robin Edizioni), tenta proprio di indagare questa tensione attraverso le esplorazioni di immagini che la critica spesso considera infime, “risibili”: quelle del thriller italiano dal boom economico al mostro di Firenze, di un cinema che potremmo definire “popolare”. In linea con l’intuizione di Slavoj Žižek – che inizia il suo testo Looking Awry (1991) con una riflessione sul valore di leggibilità attribuito da Benjamin agli “scarti” popolari della letteratura, i romanzi d’appendice – la cultura “popolare” in Tutto quel giallo si propone come oggetto privilegiato di una riflessione sull’ambiguo vitalismo dei processi di soggettivazione che attraversano una società lanciata verso una nuova storia e addirittura verso una nuova morfologia antropologica.

Il cinema del boom intuisce, nelle sue infinte variazioni, la forza divoratrice di una classe, quella borghese, apparentemente in declino ma sempre più identificabile con l’umanità intera: nell’epoca di un’incontenibile proliferazione di merci e desideri, le immagini del giallo-thriller inaugurato da Mario Bava con La ragazza che sapeva troppo (1963), del “poliziottesco”, dello psico-giallo di Umberto Lenzi – che giunge con Dario Argento al suo apice e con Lucio Fulci alle soglie dell’horror –, rivelano nella società borghese una violenza e un eros fino ad allora sconosciuti al cinema italiano. Le immagini di genere si riproducono in maniera metastatica. Ma è possibile leggerle in termini di “omologia strutturale”? Come pensare davvero le immagini-violenza del cinema popolare, se Umberto Eco nel 1977 giungerà a scrivere su L’Espresso che persino l’iconica foto di Paolo Pedrizzetti a Giuseppe Memeo, militante dei Proletari Armati per il Comunismo, «è unica ma al tempo stesso […] sembra un film che abbiamo visto e rimanda ad altri film che l’avevano vista» (Ravveduto 2019, p. 102)?

È proprio intorno allo sguardo che abita e ci ri-guarda da queste immagini che è possibile indagare le soglie che le attraversano e l’intervallo che le separa da quelle del cosiddetto “cinema d’autore”. Il testo di Lalli segna infatti una cartografia di movimenti tensivi che producono una fenomenologia dello sguardo nel cinema popolare, dal «sadismo dello sguardo» (Lalli 2020, pp. 21-31) a «lo sguardo indecidibile» (ivi, pp. 51-67).

Il sadismo dello sguardo dell’assassino – che il cinema popolare esibisce con un ampio uso delle soggettive – appare già da sempre doppio: risponde con una violenta coazione a ripetere allo sguardo fagocitante della città. È sotto l’occhio della città infatti – protagonista indiscussa del thriller nostrano – che si compiono gli efferati omicidi di donne borghesi emancipate, disinibite, che caratterizzano il giallo all’italiana.

Se nel neo-capitalismo la metropoli diviene teatro di una serie infinita di choc, urti e stimolazioni, l’energia repressa e sedimentata nelle vie, negli edifici, nei vicoli, ne impressiona il volto, animandolo di uno sguardo inquietante, spettrale, incollocabile. Le città e gli interieur – corpi né vivi né morti (pensiamo a statue e manichini che invadono gli interni in Sei donne per l’assassino di Mario Bava, 1964), impregnati di un’esorbitante ipertrofia nervosa – incarnano il punto vuoto da cui proviene un’ingiunzione a godere che, impossibile da soddisfare pienamente, produce un debito insanabile: la città diventa un’enorme riserva di colpa, un’immensa “scena del crimine”.

La distruzione violenta dei corpi femminili drammatizza la trasformazione dell’altro (l’«alieno femminile», p. 88) nel monstrum di un abnorme «furto di godimento» (Žižek 1999, p. 62; p. 189), il cui eccesso deve essere distrutto (tanto nelle infinite donne-vittima che nella moderna Medusa del Profondo rosso di Dario Argento, 1975, il cui eccesso, nota Lalli, potrà essere rimosso solo attraverso la decapitazione), a favore della conservazione di un Ordine solo apparentemente osteggiato. Se da una parte possiamo cogliere un afflato anarchico nell’azione distruttiva dell’assassino, essa però non provoca alcuna rottura dalla Legge, ma costituisce una fantasia funzionale alla sua conservazione, alla produzione di quelle forme di “emancipazione” che le permettono di catturare ogni desiderio nel significante vuoto “democrazia liberale”.

Le soglie precarie, instabili, incerte tra reazione e rivoluzione che caratterizzano lo sguardo sadico, attraversano anche il dispositivo destinale (la «fatalità del destino», p. 44), che condanna insieme le vittime e il solitario omicida alla morte. Esso svolge una funzione “conservatrice” che però – al contrario di quanto sostiene l’autore – non si riduce ad un’intenzione «moralizzante» (ibidem); quando neppure i rituali di estetizzazione della morte (gli omicidi confezionati ad arte, le simmetrie e il manierismo del colore che, dal lavoro di Bava, caratterizzano l’immagine) possono condurre ad espiazione la colpa universalizzata dal «culto senza dogma del capitale» (Benjamin 2014), la trasgressione violenta e solitaria dell’assassino non interrompe né sospende il lavoro della macchina ideologica: anch’egli la alimenterà con il proprio corpo sacrificale.

È nelle opere di Dario Argento – fa notare Lalli – che lo sguardo dello spettatore assume un’assoluta centralità. In L’uccello dalle piume di cristallo (1970), capolavoro del regista, lo scrittore Sam Dalmas, in uno spazio vuoto, quasi anaerobico, tra due porte a vetri – la violenta trasparenza della visibilità (cfr. Baudrillard 1994) –, assiste all’apparente tentato omicidio della giovane Monica. Le immagini confuse che si susseguono nei ricordi dello scrittore rendono indistinguibile la vera identità dell’assassino.

L’indecidibilità della visione a cui il protagonista – e, con lui, lo spettatore – appare consegnato, non costituisce però una semplice “distorsione” fallace della vista, ma rivela l’enigmatico rapporto che lega la realtà all’immaginario che la struttura e ne è insieme prodotto, secondo una logica che raggiunge nel tardo Tenebre (1982) il suo apice: il giornalista televisivo (non a caso) conservatore Cristiano Berti, compie feroci delitti ispirandosi alla fiction letteraria, ma sarà infine lo stesso scrittore, Peter Neal, a perpetuarne la fantasia omicida. I costanti tentativi messi in atto dalle assassine per eliminare i presunti testimoni – coloro che avrebbero “visto tutto” – non appaiono allora infondati: Sam Dalmas ha davvero “visto troppo” perché si è «avvicinato alla verità» (Lalli 2020, p. 56); tale verità però, potremmo aggiungere, non è che l’ambigua operatività del nucleo vuoto che alimenta la produzione delle soggettivazioni molari del capitale.

Il cinema popolare, tuttavia, abbandona queste intuizioni, arrestandosi senza condurle alle loro estreme conseguenze visive, teoriche, politiche. Ma in fondo, a pensarci bene, se lo avesse fatto non potremmo più parlare di “cinema popolare”. L’iscrizione delle immagini-violenza in uno “schema d’iterazione fissato in ricorrenze identitarie” (il Killer mascherato, l’uso dell’arma bianca, l’esibito corpo femminile e la sua distruzione sistematica) amministra le tensioni dell’inconscio collettivo attraverso la ripetizione «ad alto tasso di ridondanza» del consumo massmediale (ivi, p. 74); i moventi di sesso e denaro – i due equivalenti universali dello scambio – prima (pensiamo a Sei donne per l’assassino), e la lente distanziante della follia poi (dal 1970 in particolare, ricordiamo ad esempio il prete-assassino di Non si sevizia un paperino, capolavoro di Fulci, nel 1972), agiscono come diaframmi in grado di disinnescare il potenziale eversivo che il cinema “popolare” sembra talvolta mettere in campo.

Il folle serial killer (vera invenzione del genere), assumendo su di sé, in un “fuori” dal corpo sociale, le pulsioni rimosse dalla collettività, incarna in modo esemplare tutto quel «sistema di procedure in grado di autoimmunizzarsi» (ivi, p. 80) – di proteggersi distruggendo le proprie stesse difese – che, facendo “detonare l’inconscio” dello spettatore da una distanza accomodativa, permette al dispositivo di scissione del capitale di riprodursi.

A questo punto può essere chiarificatore fare brevemente riferimento all’ultima opera di chi sembra attraversare sotterraneamente, ma non è certo una sorpresa, Tutto quel giallo: Pier Paolo Pasolini. Se ancora in L’uccello dalle piume di cristallo all’indistinguibilità della visione si sostituiva, nel finale rivelatorio, una “verità” chiarificante, in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) assistiamo alla teorizzazione visiva di un’indistinguibilità formidabile, che Pasolini chiama “l’anarchia del potere”: se la macchina ideologica produce soggettività articolandosi su un vuoto, esso dovrà essere sempre occupato da qualcosa, qualunque cosa, simbolicamente ricodificabile in qualunque modo (Žižek 1991, p. 143).

Il susseguirsi delle sadiche soggettive dei gerarchi fascisti (del Duca, del Presidente, del Banchiere, ma non del Monsignore) che assistono all’eliminazione finale delle giovani vittime, costringendo però lo spettatore nella posizione di un’insostenibile assunzione letterale della Legge (Godi!) che parodizza i dispositivi in atto nel cinema popolare, intensifica l’identificazione fino a rendere inoperosa la macchina.

Il rovesciamento non dialettico di una visione giunta fino al suo limite estremo (forse intuibile persino nella rotazione del binocolo del Duca?) potrà ri-attivarne la potenza politica, producendo, nella più impensabile vicinanza, un vuoto («il vuoto di una distanza presa», Althusser 1974, p. 44) in grado di rimanere, forse, finalmente, vuoto. L’invenzione di uno sguardo che si installi su questo vuoto senza possederlo o rimuoverlo, potrà allora liberare l’immagine repressa nell’immaginario e mostrarci che la nascita di uno sguardo inedito, davvero popolare è ancora possibile.

Riferimenti bibliografici
L. Althusser, Lenin e la filosofia, Jaca Book, Milano 1974.

J. Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Raffaello Cortina, Milano 1994.
W. Benjamin, Il culto del capitale. Walter Benjamin: capitalismo e religione, a cura di M. Ponzi, D. Gentili, E. Stimilli, Quodlibet, Macerata 2014.
M. Ravveduto, Addio alla società semplice. L’immaginario della violenza e il poliziottesco, in AA. VV, The Other Side of the Seventies Media, politica e società in Italia a cura di E. Frescani e M. Palmieri, in “Cinema e storia”, 2019. 
S. Žižek, Looking Awry. An Introduction to Jacques Lacan Throught Popular Culture, MITPress, Cambridge (Massachusetts) 1991.
Id., Il Grande Altro. Nazionalismo, Godimento, cultura di massa, Feltrinelli, Milano 1999.

Francesco Lalli, Tutto quel giallo. Thriller italiano e società dal boom economico al mostro di Firenze, Robin Edizioni, Roma 2020.

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