Capita, a volte, che una serie tv italiana generalista smentisca l’annoso stereotipo culturale secondo cui le produzioni nazionali sono per definizione peggiori di qualunque prodotto di importazione. Capita, a volte, che una serie tv italiana generalista ottenga ottimi risultati di ascolto, superiori a molte serie di importazione con una migliore brand image. Ma capita anche, purtroppo, che quella stessa serie venga cancellata anzitempo, nonostante le proteste del suo pubblico. È il caso di Tutto può succedere (Raiuno, 2016-2018), il cui destino infausto sembrerebbe addirittura scritto nel titolo. Le ragioni della sua chiusura non hanno nulla a che fare con il contenuto, né con i suoi production values, né con la disaffezione del pubblico, anzi. La serie funzionava dal punto di vista narrativo ed era molto amata, il cast era ben assortito con nomi di spicco ed esordienti di valore, la colonna sonora aveva spunti originali, e la sceneggiatura rappresentava addirittura uno dei rarissimi esempi di adattamento attento e ben riuscito di un format estero di successo. Eppure, al termine della terza stagione, è stata cancellata dai palinsesti, dopo che – appunto – le è successo di tutto.
Prodotta da RaiFiction e Cattleya, Tutto può succedere si presenta come una grande scommessa per la serialità generalista italiana: è l’adattamento del family drama Parenthood (NBC, 2010-2015), a sua volta tratto dal film omonimo diretto da Ron Howard nel 1989. Parenthood è stata per molti versi originale anche nel ricco scenario seriale statunitense, affrontando senza censure temi forti come la violenza domestica, le dipendenze dalla droga, le relazioni disfunzionali. In Italia, Mediaset acquista la serie nel 2010; cautamente la manda in onda su Mediaset Premium e qualche tempo dopo la sposta in chiaro nel prime time di Canale 5, ma nella poco rischiosa stagione estiva.
La stampa specializzata italiana la descrive come un prodotto “crudo”, fin troppo esplicito per la prudente platea generalista, pur vantando un pedigree di tutto rispetto tra cui attori popolari (la protagonista Lauren Graham è l’amatissima attrice di Una mamma per amica, 2000-2007) e una colonna sonora raffinata in cui compaiono Bob Dylan, i Wilco, Josh Ritter. Previsione azzeccata: già dopo le prime puntate Parenthood viene spostata in seconda serata e poi emigra su La5, per peregrinare nel corso del tempo su altri canali minori. Nel 2016, a serie originale conclusa, la Rai sceglie di adattare il format per Raiuno. È una decisione coraggiosa e inaspettata almeno sotto due punti di vista: per i temi, distanti dalle preferenze del target di rete, e per la scelta difficile e inusuale di adeguare una serie estera ai gusti, ai formati e alle abitudini di visione del pubblico generalista più tradizionale. Sulla carta, dunque, l’operazione Tutto può succedere lascia trasparire l’immagine di una Rai innovativa, attenta al cambiamento, capace di prendersi dei rischi per sperimentare linguaggi nuovi.
Nel fedele adattamento all’originale, la californiana famiglia Braverman diventa la romana famiglia Ferraro. Le storie dei due genitori Ettore (Giorgio Colangeli) ed Emma (Licia Maglietta) e dei loro quattro figli ormai adulti Alessandro (Pietro Sermonti), Sara (Maya Sansa), Giulia (Ana Caterina Morariu) e Carlo (Alessandro Tiberi), popolano un universo denso e movimentato dove si intrecciano generazioni e problemi. Gli inevitabili scontri tra genitori e figli adolescenti mettono in evidenza le ottime giovani esordienti Benedetta Porcaroli e Matilda De Angelis, che ricopriranno successivamente ruoli di spicco nella serialità pay e nel cinema (la prima sarà la protagonista della serie Netflix Baby, 2018-2020, la seconda affiancherà Stefano Accorsi nel film Veloce come il vento del 2016); una malattia difficile come la sindrome di Asperger di cui soffre uno dei figli di Alessandro e della moglie Cristina (Camilla Filippi) porta la coppia ad affrontare una profonda crisi; le difficoltà della madre single Sara alle prese con un ex marito problematico permettono di affrontare il tema delicato della fragilità emotiva e relazionale spesso legata alla maternità; la storia di Carlo con una ragazza eritrea fa luce sulle difficoltà di una coppia mista.
Insomma, Tutto può succedere sembra una specie di miracolo: le storie dei Ferraro superano l’immaginario popolato da commissari, mafiosi, poliziotti e famiglie perfette per raccontare in maniera spesso spietata ma sempre credibile i molteplici e disfunzionali modelli relazionali degli anni dieci del nuovo millennio. Il pubblico dimostra di apprezzare molto l’azzardo di Raiuno già dalla prima stagione, trasmessa la domenica sera da fine dicembre 2015 a metà marzo 2016. I 13 episodi da 100 minuti ciascuno ottengono ascolti incoraggianti (intorno al 19% di share), tanto che la seconda stagione viene subito messa in produzione e debutta l’anno successivo, da fine aprile a fine giugno 2017. Ma qui cominciano i problemi. Le prime cinque puntate della seconda stagione vanno in onda il giovedì sera, ma a partire dalla sesta, inspiegabilmente, viene aggiunta una puntata nel prime time della domenica. Gli ascolti ne risentono sensibilmente (tra l’altro il main competitor è “fuoco amico”: Che tempo che fa di Fazio su Raitre), perciò le ultime quattro puntate tornano all’appuntamento settimanale unico del giovedì. Nonostante tutto lo share è soddisfacente e la terza stagione viene comunque programmata. Ma la messa in onda sembra trasformarsi in un esercizio di programmazione per tentativi ed errori.
Preceduta da una campagna di comunicazione in sordina e nel pieno della stagione estiva, il 5 giugno 2018 l’intera terza stagione di Tutto può succedere – annunciata come l’ultima – viene pubblicata sulla piattaforma digitale Raiplay, ancora poco conosciuta. Quindici giorni dopo la serie viene mandata in onda in chiaro, una puntata a settimana, su Raiuno. Anche il formato originario è diverso: nelle prime due stagioni le puntate erano 13 da 100 minuti ciascuna, nella terza diventano 16 da 50 minuti ciascuna, programmate back to back per coprire la prima serata per otto settimane. Il finale di serie va in onda il 6 agosto, una data impossibile, riuscendo comunque ad ottenere uno share più che soddisfacente nonostante la concorrenza di Temptation Island su Canale 5, programma molto forte nel periodo estivo. Tutto può succedere si chiude tristemente così: non per l’esaurimento della vena narrativa, né per la disaffezione del suo pubblico, che anzi si indigna sui social per la chiusura, ma a causa di scelte di programmazione palesemente sbagliate.
È doloroso ammetterlo, ma lo stereotipo della serialità generalista italiana di serie B esce dalla porta per rientrare dalla finestra; un contenuto innovativo, coraggioso, ben raccontato, diretto e recitato viene penalizzato dal riemergere della congenita resistenza del sistema televisivo italiano al rispetto delle poche, elementari ma inderogabili regole della serialità: appuntamenti fissi e regolari per guadagnarsi e rispettare la fiducia dello spettatore, una corretta collocazione in palinsesto, un formato adeguato alla densità e al ritmo della narrazione. La storia della televisione generalista italiana è costellata di esempi di cattiva gestione del prodotto seriale non solo nazionale ma anche di importazione, alcuni dei quali molto pittoreschi, come la messa in onda delle prime puntate di Dallas da parte della Rai nel 1981 senza rispettarne l’ordine cronologico, o lo smembramento degli episodi di Beverly Hills 90210 nei primi anni novanta su Italia Uno per aumentarne il numero rispetto alla suddivisione originale. Erano altri tempi, il che non giustifica ma quantomeno spiega. Nel 2018 invece, in pieno boom della serialità televisiva, certi errori (e in questo caso certi sprechi) sono decisamente più difficili da comprendere.
Tutto può succedere. Regia: Lucio Pellegrini; interpreti: Giorgio Colangeli, Licia Maglietta, Pietro Sermonti, Maya Sansa, Ana Caterina Morariu, Alessandro Tiberi, Camilla Filippi, Benedetta Porcaroli, Matilde De Angelis; produzione: Rai Fiction, Cattleya; origine: Italia; anno: 2015-2018.