Dopo il quadrato di The Square, il regista svedese Ruben Östlund configura un triangolo con il suo primo film in lingua inglese, Triangle of Sadness (entrambi premiati a Cannes), in cui traccia sghembe e surreali geometrie sociali assemblando azioni e comportamenti che compongono un grottesco e spesso esilarante meccanismo delle relazioni umane. Se il quadrato era un’installazione artistica concepita come «santuario di fiducia, altruismo e uguaglianza», il triangolo della tristezza – definizione presa in prestito dalla medicina estetica – è semplicemente il triangolo che si forma tra fronte e sopracciglia, conferendo un’espressione triste o corrucciata.
Il film è diviso in tre capitoli. Il primo, «Carl e YaYa», si apre col giovane modello Carl in mezzo a tanti altri ragazzi – tutti a torso nudo come lui – in procinto di sottoporsi a un provino. Nella stessa fatua e movimentata ambientazione di Prêt-à-Porter di Robert Altman, i giovani aspiranti modelli vengono intervistati, fotografati, istruiti sulla differenza tra alta moda, che esige uno sguardo serio e sdegnoso per ribadirne il carattere esclusivo ed elitario, e moda popolare che richiede invece sorriso, allegria e modelli multietnici, per comunicare la gioia di un prodotto accessibile a tutti. Con divertita leggerezza si propinano da subito satiriche pillole di classismo, mentre aleggiano idee e parole d’ordine svuotate di senso come inclusività, uguaglianza, sessismo (si sente spesso ripetere che le donne nella moda guadagnano molto più degli uomini).
Nelle sfilate di moda si proiettano slogan passe-partout come «Siamo tutti uguali» (mentre gli spettatori già seduti vengono fatti spostare per far sedere in prima fila persone più importanti) e sullo sfondo si legge la scritta «cinismo travestito da ottimismo», che risuona come un sintetico manifesto programmatico, e riassume un’idea chiave del film sull’allegro e sprezzante disincanto della contemporanea civiltà dei consumi. E proprio in nome di questo gioioso ottimismo – finto quanto indispensabile – il triangolo che esprime tristezza o perplessità sulla fronte di Carl va corretto col botox, secondo la commissione esaminatrice del provino.
Nella situazione successiva vediamo Carl al ristorante con la fidanzata Yaya, modella e influencer, al momento di pagare il conto. Qui si consuma un dialogo memorabile, in cui i paradigmi dell’incomunicabilità e della manipolazione nei rapporti di coppia assumono inclinazioni parossistiche e gli stereotipi culturali su denaro, sessismo e divisione dei ruoli si dipanano con ingenua goffaggine in una conversazione estenuante ed esilarante su chi deve pagare il conto. Nel secondo capitolo, «lo Yacht», Carl e Yaya fanno una crociera di lusso offerta loro in quanto web star.
La crociera, riservata a super miliardari, è una lenta, inesorabile e catastrofica messa in scena della ricchezza, una sorta di Cena Trimalchionis declinata in forma di slapstick, su una Corazzata Potëmkin capovolta dove l’unico ammutinato sembra essere il capitano. Una giostra di situazioni paradossali, dove la routine quotidiana e l’emergenza della burrasca vengono gestiti con la stessa impassibile freddezza, in un circuito surreale e grottesco che ricorda Buñuel e Ferreri.
Sotto lo sguardo ingenuo e beota di Carl, sfila una variegata galleria di personaggi, come Dimitrij, il perfetto stereotipo del russo arricchito che si definisce orgogliosamente “venditore di merda” (ossia di concimi fertilizzanti), l’elegante coppia di industriali inglesi produttori di armi, o il timido e solitario magnate che elargisce Rolex come ringraziamento per un selfie. Le dinamiche gerarchiche e di classe sullo yacht sono altrettanto raggelanti fin dal briefing iniziale, in cui si motiva l’equipaggio col miraggio di laute mance e si stabilisce che non si può mai dire di no ai ricchi ospiti (con immancabili conseguenze comiche).
Basta che Carl riferisca di aver visto uno dei marinai senza divisa, al sole, a petto nudo (attirando lo sguardo di Yaya) perché questo venga immediatamente licenziato e fatto sbarcare. Le maestranze nella sala motori, nelle cucine e nei bagni lavorano nel silenzio e nell’invisibilità, salvo essere obbligati a interrompere le proprie mansioni per tuffarsi in mare con lo scivolo, assecondando il desiderio di inclusività di una ricca ospite. Le sempiterne regole del gioco sociale tra servi e padroni (come si diceva un tempo) sono dunque le stesse di Jean Renoir, Julian Fellowes, Yorgos Lanthimos, Bong Joon-ho.
Sullo yacht da 250 milioni di dollari, durante la burrasca si svolge un dialogo spassoso e sgangherato tra il comandante americano marxista e il ricco russo capitalista, entrambi ubriachi. La loro conversazione, che per errore viene trasmessa con l’interfono a tutta la nave, è un duello sui grandi temi della politica, a colpi di citazioni e aforismi letti dal cellulare, da Martin Luther King a Kennedy, da Lenin a Reagan, a Edward Abbey, Mark Twain, Margareth Thatcher. Un’idea di società è concepibile solo a colpi di slogan e di citazioni pescate dal web. La possibilità di formulare un pensiero originale sul presente non è contemplata. Alla fine, il lussuoso Titanic finisce inevitabilmente per affondare, sotto l’attacco di pirati, dotati – ironia della sorte – delle stesse armi prodotte dai ricchi industriali ospiti dello yacht.
Nel terzo capitolo, «L’isola», un gruppo, socialmente eterogeneo, di sopravvissuti dello yacht, naufraga su un’isola sconosciuta dove si ridisegnano le dinamiche relazionali e sociali, e si instaurano nuovi meccanismi di potere basati sulle capacità di sopravvivenza e sull’abilità di procacciarsi il cibo. Come ne Il servo di Losey, Abigail, che sulla nave era un inserviente, sull’isola diventa il capitano che può godere di privilegi e anche di favori sessuali. Ma come nelle migliori narrazioni di naufragi, da Il signore delle mosche a Wertmüller fino a Lost e ai reality show ambientati su isole selvagge, le nuove gerarchie della comunità di sopravvissuti nascondono rischi e insidie, soprattutto quando si scopre che l’isola è tutt’altro che un luogo deserto e inesplorato.
“Chi vince la battaglia con la coscienza vince la guerra dell’esistenza” sentenziava l’arricchito e spregiudicato costruttore impersonato da Aldo Fabrizi, in C’eravamo tanto amati. Tra i ricconi di Triangle of Sadness invece nessuno sembra avere una coscienza con cui fare i conti. Il pragmatismo dell’opulenza capitalistica neoliberista è candidamente immune da sensi di colpa e moralismi. Per condividere il concetto di giustizia e di uguaglianza basta fare fotografie e sfilate di moda con modelli multietnici, basta parlare di uguaglianza sorseggiando champagne nella Jacuzzi e imponendo a tutto l’equipaggio di fare il bagno in mare per godersi un momento di libertà e distrazione; o basta dire che le bombe a mano e le mine antiuomo sono “strumenti di alta tecnologia ingegneristica per la tutela delle democrazie nel mondo”.
In virtù di questo allegro e ottimistico cinismo, le classi dominanti non sono neppure passibili di condanna morale, non c’è demagogia, così come non c’è la retorica della rabbia sociale. Triangle of Sadness ben al di là della satira sociale sulla ricchezza, sulla bellezza, sul potere e sul denaro, racconta l’impossibilità – e forse la drammatica inutilità – di un‘elaborazione politica del presente, che può solo ridursi ad uno sguardo distaccato e ironico sulla fiera delle vacuità umane.
Triangle of Sadness. Regia: Ruben Östlund; sceneggiatura: Ruben Östlund; fotografia: Fredrik Wenzel; montaggio: Ruben Östlund, Mikel Cee Karlsson; interpreti: Harris Dickinson, Charlbi Dean, Dolly de Leon, Zlatko Burić, Henrik Dorsin, Vicki Berlin, Woody Harrelson; produzione: Erik Hemmendorff, Philippe Bober; distribuzione: Teodora Film; origine: Svezia, Germania, Francia; durata: 142′; anno: 2022.