Nel 2009, a seguito della sua presa di posizione a favore dei manifestanti dell’Onda verde, il regista iraniano Jafar Panahi è stato condannato dalle autorità giudiziarie del suo paese. Oltre a costringerlo agli arresti domiciliari, i giudici hanno inflitto al regista una pena particolarmente dura, proibendogli di proseguire in qualsiasi forma la sua attività di cineasta. Naturalmente non è facile, nemmeno per uno stato totalitario, liberarsi dei dissidenti quando questi sono autori riconosciuti a livello internazionale. Il coro di proteste – a cui eccezionalmente si è unito un regista che si era fino ad allora tenuto a distanza dai dibattiti politici: Abbas Kiarostami, che può essere considerato il maestro di Panahi – ha costretto il regime degli Ayatollah a rivedere almeno in parte la condanna. Ma se la pena detentiva è stata in seguito mitigata dal regime, lo stesso non può dirsi per la decisione relativa al lavoro di Panahi: il regista iraniano ufficialmente non può girare e firmare film, né può contribuire ad alcun titolo alla loro realizzazione. Tuttavia, il regista ha continuato a lavorare, volgendo a suo favore alcune delle trovate che più hanno caratterizzato il cinema iraniano da Kiarostami in avanti.
Film come This Is Not a Film (2011) o Taxi Teheran (2015) giocano sulla destituzione del film come opera, sfidando in questo modo il divieto del regime. L’uso di dispositivi di ripresa alternativi, come il telefono, o l’ambientazione “non set” in un taxi – l’automobile come boîte à caméra è d’altronde uno dei tratti che Alain Bergala considera distintivi dello stile di Kiarostami e del cinema iraniano – sono stati sempre più piegati alle esigenze di un cinema militante, volto a indagare la realtà e il malessere della società iraniana. Il regime iraniano fino a oggi ha tollerato.
Con il recente Tre volti, nelle sale in Italia, l’operazione politica di Panahi si fa più complessa e non sarà facile ignorarla. Prima di tutto torna la fiction nel lavoro del regista, anche se strettamente intrecciata con il documentario: la giovane Marzyieh Rezai, ragazza di un villaggio nella regione di cui è originario il regista, fa arrivare un videomessaggio telefonico all’attrice Behnaz Jafari, popolare protagonista di serie televisive. Nel video la ragazza racconta la sua storia: desidera diventare attrice e ha vinto il concorso per entrare nell’Accademia d’arte drammatica di Teheran. Ma sia la sua che la famiglia del fidanzato si oppongono. Lei è fuggita e si è nascosta in una grotta, da dove, in un gesto estremo di disperazione, sembra riprendere il proprio suicidio dopo aver raccontato la sua storia nel video.
Behnaz convince Jafar Panahi ad accompagnarla al villaggio, dove desidera scoprire la verità. Durante il viaggio i due rivedono più volte il messaggio, discutendo se ci sia un taglio di montaggio nel momento in cui la ragazza sembra lasciarsi pendere dal cappio che ha preparato, facendo cadere il telefono. Ne va della veridicità dell’evento filmato – la ragazza si è uccisa o ha solo simulato un suicidio? – ma anche della capacità delle immagini di mostrare la verità del reale.
Non avremo esattamente una risposta a questa domanda. Behnaz e Jafar arriveranno in paese per scoprire che la storia nel complesso è autentica, ma che la ragazza non si è suicidata. Il film si concentra piuttosto sulla seconda questione: i limiti del cinema a mostrare la realtà. Il che evidentemente, dal punto di vista di Panahi, investe in pieno la funzione e lo statuto politico del cinema. Non mi sembra un caso allora se, come attore-regista del film, Panahi si tenga spesso a distanza dagli altri personaggi. Tre volti procede attraverso una continua interrogazione su come lo sguardo del regista si traduca in una inquadratura e cosa tale inquadratura lasci vedere, tanto al regista quanto allo spettatore.
In questo tratto del film è plausibile ritrovare insieme un omaggio e una critica al maestro Kiarostami. Un omaggio, perché sulla questione del fuori campo e sul suo potere informativo – nel duplice senso di aggiungere informazioni sulla situazione e di dare forma all’immagine – il regista non ha mai smesso di interrogarsi, fino all’ultimo 24 Frames (2017). Una critica se, come mi pare, più di una sequenza di Tre volti sembra citare la trilogia kiarostamiana formata da Dov’è la casa del mio amico? (1987), E la vita continua (1992) e Il sapore della ciliegia (1994). Laddove il mondo rurale del Nord dell’Iran assume in Kiarostami toni fortemente poetici e quasi bucolici, in Panahi irrompe però la consapevolezza dell’arretratezza e della povertà (spirituale oltre che materiale) di quel mondo: ad esempio sotto forma delle improvvise e furiose apparizioni in campo del fratello mentalmente instabile di Marzyieh.
L’interrogazione sui limiti di visibilità attraverso l’immagine assume anche altre valenze, probabilmente più drammatiche per lo stesso Panahi. I volti cui fa riferimento il titolo del film sono i volti che si mostrano e sono visti. Ma sono anche, per così dire fenomenologicamente, i volti di chi guarda, i volti che si fanno schermo di proiezione di ciò e di chi si mostra. Tra i diversi personaggi in cui si imbatte durante la permanenza nel villaggio, ce n’è uno di cui il regista decide di non incontrare lo sguardo, venendo incontro al suo desiderio d’invisibilità. È quello di Shahrazad, l’ex attrice di cinema dei tempi dello scià caduta in disgrazia, l’artista immorale che si esibiva in balli sconci nei film e che ora vive in una casetta fuori del paese, isolata da tutti.
I due si “conoscono” solo quando di notte Shahrazad lascia sul parabrezza dell’automobile di Jafar un cd con la registrazione delle sue poesie, recitate da lei stessa. Sono componimenti altamente metaforici, in cui la concretezza della situazione – penosa, violenta, dolorosa – viene trasfigurata in una riflessione quasi mistica sull’esperienza del dolore e del male di vivere: verrebbe da dire come da sempre accade nell’arte poetica persiana. Alla fine del film, Jafar vede la donna solo di spalle, mentre lei dipinge paesaggi in un campo accanto alla casa. Ed è come la visione di un passato a cui il regista sente di appartenere – perché vi si è formato, perché lo ha criticato e combattuto, essendo poi tradito nelle sue speranze – ma a cui non può né vorrebbe tornare.
Insomma, il regista non può rivolgersi al suo pubblico, tantomeno al suo popolo, e dire: ecco, questa è la realtà, io ne detengo la verità e tu devi fare questo. Il suo sguardo è chiamato a fare un passo indietro, come nella sequenza finale del film. Sulla strada del ritorno a casa, a Teheran, alla capitale del regime e degli intellettuali dissidenti, l’automobile guidata dal regista, e che ora ospita Marzyieh oltre a Behnaz, deve fermarsi sul ciglio dello stretto sentiero d’accesso del villaggio per far passare la carovana di camion che portano le vacche per la fiera annuale degli allevatori. Ma questa immagine carica di simbolismi viene rotta dalla decisione delle due donne di scendere per camminare e anticipare così il percorso della macchina lungo la strada. La macchina da presa le riprende, la donna matura avanti e la ragazza che le corre dietro per raggiungerla. Ciò che può fare l’immagine è aprire questo spazio in cui può accadere qualcosa.
Riferimenti bibliografici
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