Tra le varie tracce lasciate da Calvino nell’arco della sua produzione critico-letteraria, il documento che forse più di tutti può servire da mappa per una ricostruzione accurata del suo rapporto con il cinema è un breve scritto del 1974, Autobiografia di uno spettatore, pubblicato in apertura a quattro sceneggiature di Fellini e contenente le coordinate principali della cinefilia calviniana.

Nella fruizione filmica di Calvino lo spartiacque fondamentale è dato dalla guerra mondiale, anzi, per la precisione, dall’embargo fascista dei film stranieri nel 1938. Prima di questo irrigidimento autarchico del regime, l’attività principale dell’adolescenza dell’autore è infatti quella di rinserrarsi nei piccoli cinema di provincia per fuggire nelle realtà alternative delle grandi produzioni hollywoodiane. Tra i diversi nomi Calvino cita in particolare la coppia Ginger Roger-Fred Astaire, l’amato Buster Keaton, e infine Frank Capra, Gregory La Cava, e Frank Borzage, i cosiddetti «registi dei buoni sentimenti dell’epoca di Roosevelt» (Calvino 1974, p. XIII).

La chiusura al mercato americano e lo scoppio della guerra segnano invece un momento di maturazione e di cesura: «Finita la guerra tante cose erano cambiate: io ero cambiato, e il cinema era diventato un’altra cosa, un’altra cosa in sé e un’altra cosa in rapporto con me. La mia biografia di spettatore riprende ma è quella di un altro spettatore, che non è più soltanto spettatore» (ivi, p. XVIII). L’avido consumatore di pellicole americane diventa infatti autore letterario, viene dato alle stampe Il sentiero dei nidi di ragno (1947) e quel primo amore adolescenziale per il cinema si trasforma in una solida premessa al processo di costruzione delle sue storie.

Le suggestioni visive di quegli anni conservano dichiaratamente un particolare rilievo nell’intera produzione letteraria dell’autore. Se poi si volesse allargare ulteriormente lo sguardo all’insieme delle arti figurative, il discorso diverrebbe ancora più articolato e complesso. L’importanza della vista nell’opera calviniana, testimoniata esplicitamente nel suo ultimo romanzo Palomar (1983), è stata infatti più volte oggetto di attenzione da parte della critica. Scrive in proposito Marco Belpoliti:

Calvino è uno scrittore visivo, egli stesso ne è conscio, e a più riprese ha cercato di descrivere questo aspetto di sé. Prima di tutto ci sono le immagini mentali – l’immagine visiva – che costituiscono l’origine della sua fantasia, da cui paiono provenire le parole scritte del racconto; di queste immagini originarie sappiamo poco, ci è invece noto qualcosa del loro meccanismo, così come lo scrittore ligure lo ha spiegato nella lezione sulla visibilità (Belpoliti 2006, p.31).

Nel capitolo sulla visibilità delle Lezioni americane, Calvino spiega infatti come l’immaginazione per lui abbia origine nelle immagini e solo successivamente si disponga in una forma concettuale. Il processo creativo appare dunque come una sorta di movimento che dal magma indefinito delle immagini visive muove verso l’affilata precisione delle parole: all’incirca a metà di questo continuum tra scrittura e immagine si possono collocare i tre trattamenti per il cinema scritti da Calvino tra il ‘56 e il ‘62, editi nei Meridiani sull’autore. 

Si tratta di tre opere, Viaggio in camion, Marco Polo e Tikò e il pescecane, da ascrivere alla saltuaria collaborazione di Calvino con il cinema. Pur rimasti ad uno stadio germinale del processo cinematografico, questi testi risultano comunque di grande interesse per diversi motivi; in primo luogo consentono di penetrare all’interno del processo di scrittura calviniano, mostrando per l’appunto quella fase intermedia di elaborazione che anticipa la cristallizzazione narrativa della storia. È questo in particolare il caso del Marco Polo, uno scritto di un centinaio di pagine, redatto nel 1960 su commissione del produttore Franco Cristaldi e mai tradotto in film. Nonostante la mancata evoluzione cinematografica però, questo particolare adattamento del celebre testo medievale troverà una forma sotterranea di sopravvivenza nel successivo romanzo Le città invisibili (1972) . 

I tre scritti costituiscono inoltre una testimonianza preziosa del confronto di Calvino con una diversa tipologia narrativa, la sceneggiatura, un genere letterario ibrido con cui molti autori della sua generazione sono sporadicamente chiamati a misurarsi. Seppur relativamente giovane, il linguaggio cinematografico possiede già una sua forma propria, fatta di regole e strutture specifiche. Nel caso delle tre opere calviniane non si tratta precisamente di sceneggiature ma piuttosto di trattamenti, ovvero scritti spuri che per natura si collocano a metà tra il copione e il racconto letterario vero e proprio.

Calvino è costretto dunque a utilizzare una serie di soluzioni stilistico-retoriche proprie di questa nuova forma letteraria: è il caso ad esempio dell’indicativo presente utilizzato in tutti e tre i testi come tempo narrativo in sostituzione dell’imperfetto o di altri aspetti legati ad esempio alle tecniche descrittive che si rifanno ad una componente principalmente visiva. A quest’ultimo proposito si pensi alla sistematica approssimazione delle indicazioni anagrafiche: «Tikokumi detto Tikò, è un bambino di otto-dieci anni» o al costante rinvio dell’autore a posture e atteggiamenti dei personaggi: «Un uomo che pare voglia nascondersi e si guarda sempre intorno indeciso»/«è lei che si arrampica per prima sul camion, scaccia chi non le va starnazza come una gallina; e sarà detta, appunto, la Gallina (Calvino 2004, pp. 499-587».

È pur vero che questi trattamenti, sebbene seguano alcune convenzioni proprie della scrittura cinematografica, rispondono comunque ad un’estetica generale marcatamente calviniana, tanto nei contenuti quanto in alcuni aspetti stilistici. Tra i tre testi citati in precedenza quello che esprime in modo più efficace il rapporto dell’autore con il cinema è forse il primo, Viaggio in camion, soggetto di una decina di pagine che racchiude una serie di spunti di notevole interesse. L’impianto del racconto ricalca fortemente il celebre film Ombre rosse, western americano tra i pochi che erano riusciti a superare la censura fascista di quegli anni. L’immagine di partenza proviene dunque da quel bacino di reminiscenze adolescenziali citate nell’Autobiografia. Alla diligenza nel Far West viene tuttavia sostituito un camion che attraversa un punto non ben identificato dell’Italia, trasportando un eterogeneo gruppo di personaggi.

Quando si ricominceranno a fare film sulla resistenza – presto, dico io – il film che mi piacerebbe veder fare è un film che rappresenti le varie posizioni degli italiani di fronte alla guerra e alla lotta partigiana, mettendo insieme, con quella formula che fu già di Maupassant in Boule de suif e di Ford in Ombre rosse – un campionario di vari tipi umani e sociali che si trovano per caso su uno stesso mezzo di locomozione. Qui al posto della diligenza di Rouen o della corriera del Far West, dovrebbe esserci uno di quei camion che giravano allora, quando le strade ferrate erano interrotte (ivi, p 499).

All’interno dell’incipit sono già racchiusi in buona misura gli aspetti principali del racconto: innanzitutto è interessante osservare l’esigenza di Calvino di riprendere i racconti sulla Guerra e sulla Resistenza, a partire però dalla mediazione di Maupassant e di John Ford. A proposito della rappresentazione di questo stesso periodo storico Calvino si esprime di nuovo nell’Autobiografia di uno spettatore, manifestando un severo giudizio nei confronti di quei film che cercano una ricostruzione troppo filologica dei fatti: «La fedeltà al vero non dovrebbe essere un criterio di giudizio estetico, eppure a vedere i film dei giovani registi a cui piace ricostruire l’epoca fascista indirettamente, come uno scenario storico-simbolico, non posso fare a meno di soffrire» (Id. 1974, p. XVI).

Il racconto cinematografico deve dunque passare per suggestioni, atmosfere, più che per verosimiglianza storica. È significativo a questo punto osservare il carattere fortemente ipotetico che pervade la narrazione a partire dalle prime righe, espresso con forza dal futuro iniziale e dai due condizionali successivi. Lo stesso tono fumoso prosegue successivamente anche nella presentazione dei personaggi: «Ci sarà la donnetta già grigia (…) Ci sarà una ragazza di campagna» e ancora «Poi ci sarà un giovanotto robusto, in canottiera» (Ibidem). Anche in questi casi i futuri ipotetici che introducono le varie descrizioni sono sintomo di un flusso creativo che è ancora fortemente impregnato d’immagini ma che probabilmente non possiede ancora una concettualizzazione compiuta: i personaggi hanno colori, abiti e posture ma non ancora intenzioni e pensieri definiti.

Questo racconto di un breve spaccato di guerra esibisce dunque i tratti di uno scritto preparatorio, una bozza, che, come testimonia la scelta iniziale dei tempi verbali, non ha ancora assunto una sua forma definitiva. Questa dimensione sospesa va da un lato imputata ad una tipologia di scrittura – quale è quella cinematografica – che attraversa continui avvicendamenti e non può mai dirsi realmente conclusa fino al momento delle eventuali riprese; d’altra parte il processo creativo che dal bianco e nero della diligenza fordiana dà vita ad un racconto sulla Resistenza partigiana sembra fornire in qualche modo un accesso a quel nucleo d’immagini citate da Belpoliti e nelle Lezioni americane, quelle  immagini primordiali che sembrerebbero essere a capo di tutti i processi creativi calviniani.

Riferimenti bibliografici
M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, Einaudi, Torino 2004.
I. Calvino, Autobiografia di uno spettatore, Einaudi, Torino 1974.
Id., Italo Calvino romanzi e racconti, a cura di M. Barenghi, B. Falcetto, Mondadori, Milano 2004.
Id., Lezioni americane, Garzanti, Milano 1996.

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