La star n’est pas seulement une actrice.
Ses personnages ne sont pas seulement des personnages.
Le personnages de film contaminent les stars.
Réciproquement la star elle-même contamine ses personnages.
Edgar Morin

Se fosse possibile proclamare il dogma centrale in un’ipotetica teologia dello stardom, suonerebbe più o meno così: ogni diva è sempre una e trina – un po’ donna, un po’ attrice, un po’ personaggia. Ce lo racconta bene Cristina Jandelli nel suo ultimo lavoro dedicato a Claudia Cardinale, attraverso un’indagine (anch’essa sorprendentemente concepita secondo la mistica del tre) che procura l’estasi di un vero e proprio bagno immersivo nella dimensione paradossale dell’attorialità, consentendo di decriptare i segni del linguaggio misterico che avvolge l’universo della star e, dunque, di accogliere il senso più recondito delle sue multiformi estrinsecazioni. L’autrice lo annuncia fin dall’introduzione: non si tratta di una monografia esaustiva su Cardinale, ma di un ritratto, per così dire, “parcellizzato”, che la inquadra in una fase ben precisa della sua carriera, quella degli anni Sessanta, ovvero nel momento aurorale della sua (ri)nascita cinematografica come diva italiana, prima, e come star internazionale, poi. La ricchezza del taglio proposto rivela tutto il suo spessore nella profondità analitica dei tre studi, nutriti dagli esiti di una ricerca dal respiro incredibilmente ampio, che sfrutta le possibilità ermeneutiche offerte da differenti prospettive metodologiche: la parte dedicata alla scrittura del sé, o meglio, alle “divagrafie” di Cardinale; quella incentrata sulla ricostruzione del rapporto pigmalionico con il produttore Franco Cristaldi, l’artefice della sua inarrestabile ascesa; infine il focus su tre film – La ragazza con la valigia (Zurlini, 1961), (Fellini, 1963) e C’era una volta il West (Leone, 1968) –, in cui a essere posto sotto esame è piuttosto l’amalgama sinergico tra immagine divistica e doti interpretative. Ogni studio si intreccia con gli altri, assecondando un percorso esorbitante di rivelazioni, in cui le riflessioni sul divismo dialogano in perfetta armonia teorica con gli studi sulla performance, sulla produzione industriale, sul fandom e, ovviamente, sul gender.

Osservata dalla nostra altezza cronologica, l’immagine di Claudia Cardinale rifulge dello stesso bagliore celestiale che ammanta le parabole delle star hollywoodiane classiche, ma il suo è un fato – “mektub” per sfruttare un termine tunisino utilizzato dalla stessa attrice nei suoi scritti – incontestabilmente moderno che l’accomuna, almeno in parte, alle sorelle minori delle maggiorate degli anni Cinquanta (Mangano, Loren e Lollobrigida), ossia a quella generazione d’interpreti libere e indipendenti (Sandrelli, Spaak, Lisi), impegnate come donne ad affermare attivamente, nella vita e nell’arte, la priorità di appartenersi fino in fondo. Jandelli ricostruisce il mosaico identitario composito della diva partendo dalle due autobiografie che Cardinale produce nell’arco di un decennio, tra gli anni Novanta e i Duemila – periodo di tempo compreso tra la morte di Cristaldi e la separazione dal regista Pasquale Squittieri, due eventi-frattura emblematici, che insieme alla scoperta nel 1967, da parte della stampa scandalistica, di un figlio segreto (frutto di una violenza subita quando Claudia è ancora minorenne), definiscono gli assi portanti della sua cronistoria esistenziale. Cardinale firma, nell’ordine, Io, Claudia, tu, Claudia (1995), insieme alla giornalista Anna Maria Mori, e Mes étoiles (2005), redatto insieme a Danièle Georget: due testi molto diversi (il primo sul modello agostiniano dell’interlocuzione, il secondo più affine alla pratica della scrittura d’artista), in cui si esplicita un passaggio evolutivo netto nella coscienza dell’attrice, che da creatura cinematografica scissa, spezzata, melodrammaticamente irrisolta nello stallo della doppia enunciazione, arriva infine a ricomporsi, a fare pace con il suo destino e a indossare i panni più autentici dell’autrice.

Il dittico propone il racconto della vita privata come storia della vita pubblica, con le battaglie civili anticipate dallo status di Cardinale, donna abusata e ragazza madre prima, poi celebrità e attivista. Però non è solo questo. Quella che emerge nei due volumi è anzitutto un’artista che afferma la proprietà di sé e aspira a un ruolo paritario nelle relazioni affettive e professionali. Lo attestano le confessioni di C.C., calco sulle iniziali di B.B., con cui era nota sui rotocalchi Brigitte Bardot, la star francese cui Cardinale guardava con ammirazione già prima di cominciare la sua carriera di attrice in Italia: “Il mio modello, è evidente, era BB, Brigitte Bardot: andavo a vedere tutti i suoi film. Tant’è che a Tunisi, accettando la mia provocazione, mi chiamavano CC: e non si può dire che passassi inosservata” (Jandelli 2022, p. 25).

Ciò che di lei sopravvive sulla pagina, in realtà, Cardinale lo ha già raccontato al cinema, rivendicando sullo schermo la propria presenza, di per sé autonarrativa e performante, un “esserci” che migra di pellicola in pellicola e si reincarna, ogni volta, in una nuova “personaggia”: un corpo estraneo che gradualmente si impossessa della scena, e poi dell’intero film, fagocitando con la sua fotogenia selvaggia sia gli spazi e i tempi prefigurati in sede di sceneggiatura sia gli intenti produttivi orientati verso il consolidamento di una determinata immagine filmica (totalmente coincidente con quella pubblica). La personaggia finisce, quasi sempre, per fare a pezzi il personaggio, imponendosi nella sua radicalità fatalmente innervata di luci e ombre, e per restare appiccicata anche all’attrice in una prolungata impressione dolorosa che trasuda nel vissuto post-riprese. È il caso della Aida Zepponi di La ragazza con la valigia, un autentico prodotto star-vehicle finalizzato all’attestazione della stella Cardinale (alla prima esperienza come protagonista assoluta con Zurlini), ma che rivela anche, secondo Jandelli, il portato cristallino di una sensibilità interpretativa inedita, tormentata, perfettamente in tono con le figure femminili e con gli autori della modernità:

Quella operata dal film è una sorta di riscrittura intima della biografia dell’attrice. Di Aida il film sottolinea l’erranza, l’assenza di radici, il nomadismo: anche in questo Aida somiglia a Cardinale. Il personaggio contiene una parte di verità sull’attrice, per metà nota (la provenienza nordafricana della diva, la sua trasferta da Tunisi a Roma) e per metà taciuta (la maternità), a uso di un racconto cinematografico efficacemente saldato alla realtà. Hollywood richiedeva regolarmente alle attrici di portare qualcosa di sé dentro il racconto della star che impersonavano per risultare più credibili e sincere al pubblico. Analogamente Aida è saldata sul corpo esuberante e sulle emozioni profonde di Claudia Cardinale (ivi, p. 36).

Claudia-Aida è la dea-ragazza, bella come un quadro o una statua, la “fidanzata d’Italia” perennemente compresa nell’incanto silenzioso di un voto d’amore, la candida ninfa Galatea che necessita di essere plasmata, dentro e fuori dallo schermo, per animarsi e portare la sua luce nel mondo. È a questa precisa immagine che fa riferimento il costrutto iconico progettato dalla factory della Vides per la sua preziosa “opera viva”: sotto contratto per quasi vent’anni (1958-1975), la diva viene sistematicamente (ri)programmata, ri(educata), affinché possa coincidere con una certa tipologia di star persona, in ottemperanza alle disposizioni di un gelido algoritmo produttivo che disciplina ogni aspetto del suo quotidiano. Jandelli ricostruisce il quadro attraverso una minuziosa disamina di documenti e materiali d’archivio, presentandoci il caso “Cardinale-Cristaldi” – in tutta la sua emblematica complessità – come variante novecentesca e spettacolare del mito di Galatea e Pigmalione (nonché, nelle sue sfumature più grottesche, del Pygmalion di George Bernard Shaw). Anche in questo racconto, si affaccia l’ombra del terzo, nella persona di Fabio Rinaudo – addetto stampa della Vides e fido, instancabile, accolito del potere demiurgico. Ma è un altro pigmalione a catalizzare la metamorfosi definitiva di C.C. da ninfa a star del cinema: Federico Fellini, che in compie il gesto di restituire a Claudia la sua voce, permettendole di doppiarsi da sola, dopo aver subito per anni l’infamante compromesso della re-intonazione. Il mistero di quella voce sgranata incorona il profilo svettante di un’ulteriore trinità, in quanto la Cardinale felliniana, come una sfinge a tre facce, si manifesta nel corso di tre diverse apparizioni, che implicano tre versioni della stessa sopravvivenza – declinata dall’autrice del libro in termini squisitamente warburghiani – e, dunque, tre memorabili entrate in scena:

La personaggia multipla di Cardinale si rivela nella sua massima enigmaticità. La prima, la seconda e la terza apparizione compongono un ritratto disallineato, picassiano delle “tre parti in una”: hanno però, per quanto riguarda la performance attoriale richiesta, molto in comune. Il movimento coreutico e la levità, l’incessante lavorio di azioni fisiche, la centralità del primo e primissimo piano e soprattutto il sorriso, o meglio, al plurale, i sorrisi di Cardinale osservati a distanza ravvicinata nelle loro mutevoli sfumature (ivi, pp. 82-83).

Nonostante lo scandalo della maternità clandestina abbia in parte corrotto il flusso immaginifico emanato dalla stella Cardinale, deviandolo successivamente verso una nebulosa di celebrità più oscura, carnale, sessualizzata – perfettamente intercettata dalla ex prostituta Jill McBain di C’era una volta il West, che Leone (ça va sans dire, il “terzo” regista-pigmalione) converte in una solitaria “eroe femmina”, ovviamente con la valigia in mano, pronta a rifondare il West sotto il segno di un nuovo ordine matriarcale –, l’identità della diva è in grado di potersi ripristinare, sempre e comunque, all’infinito nella sua sostanza mitica. Sostanza che, nel caso di C.C., fluisce evidentemente attraverso quel riconoscibilissimo sorriso malizioso, ironico, erotico, complice, inquisitorio ed enigmatico (ivi, p. 85), eternato nello splendore del finale di e presente anche sulla copertina di Tre studi, sottoforma di perturbante trompe-l’oeil. C’è ancora lei in quello strappo e, magicamente, ricambia il nostro sguardo dal fondo dell’immagine, a monito di una verità incontrovertibile: «[…] perché Cardinale è la star, l’attrazione del film» (ivi, p. 129). Diva, una e trina.

Cristina Jandelli, Tre studi su Claudia Cardinale, Marsilio, Venezia 2022.

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