Tre piani è un grande film sul sentimento dominante del presente: la paura di vivere. Paura che dà consistenza stessa alla vita borghese e al suo palcoscenico per eccellenza: la casa. Senza la paura come formante implicito della vita sociale, le relazioni e le cose non prenderebbero la forma che prendono. Probabilmente non avrebbero forma alcuna, non avrebbero “interno”. Ed è proprio l’“interno” che la borghesia plasma, e se il “gruppo di famiglia” oggi si è fatto esiguo, nondimeno mostra la sua struttura drammatica e dolorosa nelle differenti forme che la paura prende nelle relazioni: fuga, elusione, aggressione, giudizio, ideali. Forme reattive che mancano il proprio del processo di riconoscimento, unico capace di ribaltare sentimenti elusi, responsabilità non assunte, scelte non compiute, nel loro opposto.
Moretti conferma con questo ultimo film non solo sensori acutissimi nei confronti dei sentimenti che compongono la vita sociale, ma mostra di saperli restituire in forme innovative, anche rispetto al suo stesso cinema. Qui l’innovazione passa per una triplice mossa: usare un registro drammatico (ma non patetico come ne La stanza del figlio) eludendo la commedia; saltare la mediazione di un personaggio intercessore attraverso cui filtrare la storia e guardare il mondo, restituito invece attraverso una situazione corale; usare un romanzo come intermediario della rappresentazione (l’omonima opera di Eshkol Nevo).
Se questo accade, se Moretti mette in campo una serie di ostacoli all’attuazione dei suoi modus espressivi abituali, è perché qui vuole dire qualcosa che prima non aveva mai detto né provato a dire. Vuole cioè portare ad espressione direttamente un tema: la chiusura totale e drammatica di una borghesia sprofondata nelle sue paure, che la portano a lacerare relazioni intime e sociali. Le paure al posto dei valori, o meglio quest’ultimi che restano solo a trasfigurare le prime per meglio mascherarle. Paure che qui non riguardano, come nei film precedenti, coppie o personaggi che contano per il loro ruolo pubblico (preti, professori, politici, papi), ma qualcosa di più profondo: i rapporti tra generazioni, e non solo quelli tra genitori e figli.
In gioco c’è anche l’incontro sessuale tra Lucio (Riccardo Scamarcio) e una ragazza minorenne, nipote del vicino di casa sospettato dallo stesso Lucio di aver molestato la figlia che gli era stata affidata per babysitteraggio. Un sospetto che non lo abbandonerà nel corso degli anni, perché è in primo luogo sospetto di sé, come testimonia il facile cedimento davanti alla seduzione della giovane ragazza.
E quando non c’è sospetto, c’è giudizio inappellabile, incapacità di perdono e di riconoscimento delle proprie responsabilità. Come per la coppia di giudici, Vittorio e Dora (interpretati da Nanni Moretti e Margherita Buy), capace solo di giudicare con inusitata severità – soprattutto lui, la moglie gli corrisponde – il figlio che, ubriaco, uccide con la macchina, in un folgorante inizio film, una passante.
Ma è di fatto la non corrispondenza agli ideali del padre, che giudica il figlio un “inetto”, a ferire (così come accadeva ne La stanza del figlio). È il non voler vedere mai più il figlio e il porre alla moglie una folle alternativa tra “lui e me” a testimoniare che la giustizia del padre è la violenza dell’ideale e il non corrispondervi del figlio la colpa originaria inespiabile. La donna asseconderà l’uomo, in una coniugalità dove la comune via (la “nostra strada” la chiama l’uomo) è semplicemente il modo in cui il marito chiede alla moglie di annullarsi, corrispondendo totalmente al suo modo di vita e alla sua visione del mondo. E quando dopo la morte di Vittorio, Dora finalmente deciderà di percorrere la “sua” strada e tornare al figlio, solo allora la vita potrà iniziare.
Nella terza delle tre famiglie che abitano ai tre piani dello stesso palazzo, l’uomo non è più il sospettoso né il giudicante ma l’assente. E Monica (interpretata dalla Rohrwacher) è sola. La nascita dei suoi figli avviene con il marito Giorgio (Adriano Giannini) lontano. È un ingegnere che lavora all’estero e a casa ci sta molto poco. La distinzione tra piano di realtà e immaginazione si fa per Monica inassegnabile. La donna vive nella paura di finire depressa come la madre. Vede un corvo nero venire a visitarla nella sua disperata solitudine; e trasforma l’odio del marito per il fratello, causato da una distanza radicale nel modo di vivere (il fratello è un bancarottiere), in un astio generato da una immaginaria gelosia nei suoi confronti. Ma quando il marito tornerà a casa con la nascita del secondo figlio, la donna abbandonerà la famiglia. E riapparirà come visione solo nel finale, quando la figlia la vedrà dal finestrino della macchina sorriderle.
Senso di insufficienza, incapacità di portare a parola l’esperienza dolorosa, paura di affrontarla, perimetro chiuso di case dove il fuori sembra ridursi al pianerottolo. Il tutto senza che alcuna distanza ironica e comica, né esagerazione grottesca, venga a determinarsi.
Moretti giunge al dramma borghese corale, capace di tradurre il sentimento di un’epoca, perché sente che è l’unica forma (sottratta perfino alla catarsi del pianto) in cui rappresentare la condizione disperata di un presente dove sembra impossibile prendere distanza dall’esperienza, che dunque non diviene mai effettivamente tale. Un’adesione totale, spaventata, sospettosa, seduttiva, giudicante a ciò che accade sempre nello stesso identico drammatico modo, senza mai parole che l’accompagnino e se ne facciano carico. E dove le case diventano tanti laboratori in cui persone chiuse in se stesse e nel loro ridotto nucleo familiare cancellano ogni possibilità di vita, plasmando le loro relazioni secondo il modo proteiforme di articolarsi della paura di vivere.
E qui si conferma il carattere profetico di un cinema capace di anticipare il futuro. Girato prima della pandemia, il film mostra in modo evidente i sentimenti e le attitudini (paura, sospetto, solitudine) che avrebbero poi segnato la crisi epidemica e la risposta data al diffondersi del contagio. Quei sentimenti già c’erano nelle nostre case, la crisi presente li ha solo catalizzati.
L’impossibilità di distanza da situazioni e relazioni che contrassegna i personaggi e li accompagna attraverso il tempo (come le didascalie “cinque anni dopo” ci indicano), trova riscontro anche nella scrittura e nella regia, che non concedono nulla a pause, intervalli, deviazioni. L’intreccio di personaggi e situazioni non lascia respiro. E tale assenza di aria è quella che respirano i personaggi stessi nei micro spazi che abitano (case o aule di tribunale).
Ma nel finale la situazione cambia. Uscendo all’aperto (come accadeva ne La stanza del figlio), abbandonando il set del palazzo, i personaggi in crisi osservano sorridendo un corteo di persone che per strada ballano il tango. Usciti dalla clandestinità in cui operavano (come avevamo appreso dalla radio), i ballerini di tango testimoniano – in un momento tipicamente morettiano – una leggerezza che solo il “fuori” concede. Quel ballare in strada riapre le linee di vita, e dispone al riconoscimento degli errori compiuti, degli ingiustificati rovinosi sospetti (Lucio) o delle subordinazioni volontarie ed annichilenti (Dora). Accompagnando la figlia in partenza per la Spagna, in un aeroporto pieno di gente, Lucio e Sara si ritrovano nuovamente insieme sotto lo sguardo della ragazza, e Dora, con un vestito floreale, ben distante dal nero che piaceva al marito, va in campagna dal figlio diventato neo padre e apicoltore, che l’accoglie con una espressione di disponibilità.
Con una forza notevole Moretti porta all’estrema drammaticità la struttura “chiusa” del dramma borghese, ribaltandola solo nel riconoscimento commedico finale. Se ci mostra il “senza via d’uscita” del dramma, ci fa anche vedere le opportunità della commedia, se mette in scena i conflitti “muti” (tanto più dolenti quanto più silenti) del primo, ci mostra le opportunità della seconda, quella capace di immaginare, in qualsiasi momento, la possibilità di abbandonare le nostre case e scendere tutti insieme in strada a ballare.
Tre piani. Regia: Nanni Moretti; sceneggiatura: Nanni Moretti, Federica Pontremoli, Valia Santella; fotografia: Michele D’Attanasio; montaggio: Clelio Benevento; scenografia: Paola Bizzarri; costumi: Valentina Taviani; musiche: Franco Piersanti; interpreti: Margherita Buy, Riccardo Scamarcio, Alba Rohrwacher, Adriano Giannini, Elena Lietti, Alessandro Sperduti, Nanni Moretti, Denise Tantucci, Anna Bonaiuto, Stefano Dionisi, Tommaso Ragno; produzione: Sacher Film, Fandango, Rai Cinema; distribuzione: 01 Distribution; origine: Italia; durata: ; anno: 2021.