Che cosa fa di una vita una vita? La vita non è qualcosa che semplicemente è, mera vita biologica, zoé. La vita è qualcosa che si conquista, che ha un tratto politico, vita in comune. La vita è bíos, e in quanto tale può esserci come non esserci. Potremmo cioè vivere senza sentirci vivi. Potremmo organizzare la nostra vita attenuandone l’intensità, organizzandola, controllandola, plasmandola attraverso la paura. Non la paura di questo e di quello, ma proprio quella di sentirci vivi, di esporci ai rischi di questo sentimento, che ci aprirebbe ad un divenire che elude ogni controllo. Uno spettacolo intenso e necessario di Toni Servillo, Tre modi di non morire, composto da tre monologhi scritti da Giuseppe Montesano per il grande “interprete”, come lo stesso Servillo si definisce, «testimone che per prima cosa vuole diventare anche lui vivo» (Montesano 2023, p. 137), ci dice tutto questo con grande forza.
Accedere qui ed ora a quella che Rimbaud chiama la “vera vita” – attraverso l’arte per esempio – non è una cosa semplice e immediata. Non è un mero dato rappresentativo. È un processo, un processo di divenire inscindibile da una metamorfosi. Che necessita di “intercessori” – come direbbe Gilles Deleuze –, di mediatori che permettono di dire cose che altrimenti non potrebbero essere dette con altrettanta intensità. Gli intercessori di Tre modi di non morire sono Baudelaire, Dante e i Greci. Toni Servillo ai tre aggiunge Montesano stesso: «Sento quello che scrivi come se mi appartenesse, quasi come se lo avessi scritto io» (ivi, p. 138).
In un’archeologia della tradizione occidentale, risaliamo dall’autore anticipatore della modernità a noi più prossima, Baudelaire, al quale ci si rivolge con il tu: «Perché gridi che sono morto? Sei tu che sei morto, e tanto tempo fa, non io… Io sono vivo, come tutti – o almeno così credo … Che cosa vuoi dirmi, Monsieur Baudelaire?» (ivi, p. 11); al grande poeta che porta a compimento e sintesi tutta una tradizione e un mondo, il Medioevo, avviandone un altro, Dante; e giù fino ai grandi miti e dei del mondo greco, dalla caverna di Platone a Dioniso, in nome del quale si consacravano feste in cui una intera comunità si ritrovava. In tale risalimento archeologico, lo spettacolo parla al nostro presente e al nostro oggi.
E dice una cosa di grande originalità e forza, che va ben al di là di una mera contrapposizione tra vita autentica e poetica da un lato, e vita inautentica dominata dal cloud e dal digitale dall’altro. Quello che ci viene detto sulla scena della parola è che l’accesso ad una qualche verità non avviene nel chiuso di un’interiorità, nell’intimità di una sfera nobile e segreta dell’io, ma in un processo di divenire continuo, per cui l’«autore è un attore» e ha bisogno dell’alterità della maschera e dei personaggi per essere propriamente se stesso. È solo attraverso la mediazione dell’altro (sia pur immaginato) che si può scrivere, recitare, dire una verità su se stessi e sul mondo.
È solo attraverso l’eterogeneità dell’altro, da cui il poeta prende voce e di cui allo stesso tempo è voce, che una qualche verità sulla vita può essere detta. È attraverso Jeanne, la négresse, la donna amata, che prendono corpo tutte le donne di Baudelaire: «Quante donne vivono in Jeanne, quante metamorfosi la abitano e la trasformano in figlia, sorella, madre, ragazza, amante, maga, dea» (ivi, p. 25).
E Dante, la sua voce, è la voce di tutti i suoi personaggi: «Quell’uomo non è solo Dante il fiorentino, ma è Everyman: è tutti e nessuno […] Le parole che gridano e che cantano nella Commedia non le ha dette messer Dante o messer Alighieri, ma le hanno dette Beatrice, Ulisse, Virgilio, Piccarda, Minosse, Ugolino, Francesca e le infinite voci dei personaggi che parlano nel suo poema» (ivi, pp. 59-60).
Questa potenza del discorso libero indiretto, che rende indiscernibili le voci dello scrittore e quelle dei suoi personaggi, che contempla il divenire dell’uno negli altri e viceversa, riguarda non solo i personaggi stessi, ma mondi interi che parlano attraverso il poema: «Oriente e Occidente, lingua italiana e lingua latina, sapienza greca e sapienza araba» (ivi, p. 86). La potenza metamorfica in cui divenendo altro si scopre sé stessi, sconfessando qualsiasi logica identitaria, era connaturata ai Greci, che «non temono di smarrirsi nelle molte vite in cui trovano infinitamente più di sé stessi» (ivi, p. 115). E i miti e la poesia sono proprio la voce di tale smarrimento, di tale metamorfosi: «Chi vive la poesia come metamorfosi di sé stesso, sa che ogni amore profondo le trova, le parole per essere vissuto» (ibidem).
Il divenire altro da ciò che si è, a partire dall’incontro con l’altro da sé, è la libertà che ci manca oggi e che va conquistata sempre di nuovo. La libertà radicale, l’unica che conta, la libertà del divenire, che Rimbaud ha sintetizzato nella formula «Je est un autre». Libertà che riguarda l’arte, la poesia, ma anche il modo di vivere sentimenti e passioni, cioè la forma che definisce il “costume” delle nostre vite.
Creare il discorso libero indiretto in cui lo scrittore e l’attore di oggi, nelle loro voci altrettanto indiscernibili, ritessono il filo della tradizione occidentale per trovare nelle voci di ieri le vie per esprimere la forza e la felicità di una “vera vita” qui ed ora, è questo il compito necessario che lo spettacolo realizza. Far sì che sia nuovamente possibile divenire qualcosa d’altro, e sottrarre la vita sia alla ninnananna emotiva e sentimentale di pixel e cloud (la «vita cloudizzata», la chiama Montesano) sia alle istanze di controllo e securitarie, che attraverso la costruzione di continui dispositivi minano alle basi la possibilità stessa di fare della vita un «viaggio verso l’ignoto».
L’intercessione che lo spettacolo costruisce e su cui si fonda, per cui un artista – sia del presente che del passato – parla attraverso l’altro, è l’origine creativa e inventiva di una verità («La verità si inventa», recita l’ultimo capitolo del libro). Quella che permette all’attore in scena di testimoniare attraverso la sua “interpretazione” il divenire indiscernibile delle voci di un unico processo metamorfico, che si fa processo condiviso con lo spettatore in sala, nell’affermare la felicità della potenza liberatoria dell’arte e della vita stessa. La parola recitata sottrae così la bellezza del testo al rischio aristocratico ed elettivo.
Sulla scena i processi di conversione affidati all’intensità dell’interpretazione di Toni Servillo culminano con il più sorprendente, con l’uso del dialetto napoletano nel monologo sui Greci, iscrizione di un’alterità interna alla lingua stessa. È sulla scena che la parola dell’attore diventa anche la nostra parola. È sulla scena che vediamo attuarsi il processo creativo, in cui sentiamo la voce dell’altro e il nostro comune divenire con essa. Con questo trovandoci nella potenziale condizione dei Greci di uscire nuovi e liberi dopo il teatro: «Dal teatro i greci escono come se fossero nati in quel momento: liberati, e pronti ad affrontare la libertà» (ivi, p.112).
Liberati da cosa? Certo da quel “capitalismo digitale” di cui ci parla il testo, ma anche dalle gabbie trasparenti che comportano l’ideologia del politically correct e della “inclusività” sbandierata. Pretendendo di includere l’altro, di fatto lo si elide nella sua alterità, lo si rende faccia dell’io. E si inibisce la possibilità di qualsiasi divenire che scaturisca dall’incontro intrattabile con chi ci è eterogeneamente altro. Tale divenire è inibito dai dispositivi anonimi di un potere pervasivo che si è fatto vera e propria forma di vita, metabolizzata e trasformata in un sentire e in un costume diffusi.
Tracciare linee di fuga, immaginare quel divenire che ci fa sentire vivi, è compito dell’arte, presente e passata, passata in quanto ancora presente. È da lì che possono scaturire nuovi modi per pensare e sentire la vita in forma nuova. Tale arte sarà sempre necessaria, come le parole di Baudelaire, i versi di Dante, i pensieri dei Greci, e di chi ce li restituisce sulla pagina e sulla scena.
Riferimenti bibliografici
G. Montesano, Tre modi per non morire. Baudelaire, Dante, i Greci, Bompiani, Milano 2023.
Fotografia di Masiar Pasquali.
Tre modi per non morire: Baudelaire, Dante, i Greci. Regia: Toni Servillo; testo: Giuseppe Montesano; interprete: Toni Servillo; produzione: Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini; durata: 90′; anno: 2023.