Il “testimone” non vede, non capisce. Non sa neppure da quale parte della storia stare. Dopo anni di assenza, una ragazza arriva a Budapest perché cerca di ricostruire un rapporto con il suo passato, conoscere ciò che resta della sua famiglia, misteriosamente scomparsa in un incendio, qualche anno prima. È la figlia del più noto cappellaio della città. Di quella storia non rimane che un nome sulla vetrina di una boutique elegante, in una via centrale. Non c’è più spazio neppure per la ragazza in città: tutti e da più parti le consigliano, forse addirittura le intimano, di andar via. Qualcosa che la giovane non sa, o non ricorda, arriva a disturbare il suo rientro.
Il nome di un fratello sconosciuto è il nome di un rimosso fastidioso e ingombrante, un oggetto con cui il lavoro della memoria (che è al contempo lavoro del lutto) ha sempre, dolorosamente, a che fare. È così che la giovane donna comincia il suo cammino affannoso alla ricerca di qualcosa, qualcuno (forse se stessa) che probabilmente non potrà mai dire di (ri)conoscere realmente. Segue voci che indicano nel fratello un feroce assassino (sovversivo, rivoluzionario?), fino a credere di potersi liberare di lui una volta per tutte. Ma dei fantasmi non ci si libera mai davvero: provengono dal passato, ma hanno l’indice puntato verso il futuro.
Quei fantasmi sono, in questo caso, i segnali che un intero mondo – il mito della Mitteleuropa e i fasti del grandioso impero austro-ungarico – è già sulla via del tramonto. Persino Budapest perde la forma della grande città, capitale della periferia dell’impero e si trasforma, davanti agli occhi smarriti della ragazza, in un nugolo claustrofobico di strade, cortili, palazzi, dentro i cui confini qualcosa di inafferrabile e inquietante accade. Niente che possa davvero essere compreso, né raccontato. Non c’è respiro, né via d’uscita.
Analogamente alla protagonista di quest’ultimo film, Nemes torna sui suoi passi, e lavora lo spazio come aveva fatto in Il figlio di Saul (2015). Inquadrature strette e cortissime riducono l’ambiente dentro cui lo sguardo si muove in uno sfondo indistinto, sfocato, inafferrabile. Il fondo dell’immagine è un magma oscuro da cui “escono fuori”, in maniera disordinata, corpi, figure, ombre che sono indizi di una “storia” destinata a rimanere scomposta. Nel primo film di Nemes come in questo, quel fondo sfocato è il luogo scivoloso di una memoria da cui non è dato far emergere che singoli brandelli di carne e ricordi, a partire dai quali è addirittura impossibile costruire un vero e proprio racconto. Immagini dai contorni imprecisi, scandiscono piuttosto, come lampi, le tappe di un cammino allucinatorio e visionario. Ne Il figlio di Saul, questo spazio della memoria coincideva con lo spazio del campo, qui disegna gli infiniti “passaggi” di una città che non custodisce più il sogno di grandezza delle capitali del XIX secolo, perché un’intera epoca è arrivata, appunto, al suo tramonto. Si trasforma, infine, quasi necessariamente, nel corridoio senza uscita di una trincea.
Benjaminianamente, comincia con la Prima guerra mondiale un’età in cui la storia e la sua violenza smettono di potere essere restituite nella forma del racconto, perché il testimone torna dal fronte letteralmente “senza parole”. Da quel momento in poi, sono le immagini – capaci di aprire, nel buio della memoria, improvvisi e fugaci momenti di luce – a restituire, nella forma del frammento, ciò che resta della storia, spogliata di ogni pretesa narrativa o rappresentativa che dir si voglia. Servivano esattamente a questo le immagini rubate, nei campi di sterminio nazisti, da alcuni membri del Sonderkommando, attorno a cui Nemes aveva costruito il suo primo film. Qui fanno la stessa cosa i profili di corpi irriconoscibili che emergono dal buio inquietante della notte più lunga, quella che investe l’Europa, subito prima che la Grande guerra lasci deflagrare tutto.
Nulla, se non una fuggevole indicazione temporale nelle primissime inquadrature del film, lascia presagire l’immagine con cui il film si chiude. Eppure non si prova nessuno stupore nel ritrovare, nel finale, la giovane protagonista in una trincea: quell’immagine attraversa carsicamente l’intero film, ne è anzi, forse, il vero e proprio pre-testo. È, allo stesso tempo, una fine e un inizio. Certamente una tappa decisiva nel lavoro di un regista che vuol scrivere la storia con le immagini (sempre incomplete, ambigue, devianti) e al di là di ogni possibile tentazione rappresentativa. Nulla che abbia a che fare con un semplice esercizio di stile: Il tramonto mette a punto il suo modo di fare i conti con la storia di un intero secolo, il secolo del cinema. Lo sguardo in camera della protagonista ce lo ricorda. Ci porta dentro una trincea, dalla quale forse il mondo intero non è mai uscito.
Riferimenti bibliografici
G. Didi-Huberman, Sortir du noir, Les Édition de Minuit, Paris 2015.
W. Benjamin, Esperienza e povertà, Castelvecchi, Roma 2018.