Presentato alla Quinzaine des réalisateurs nel 2021, Ouistreham deve il suo titolo al nome della località della Bassa Normandia in cui nel 2009 la giornalista Florence Aubernas conduce un’inchiesta immersiva sulle condizioni del lavoro precario. Aubernas si trasferisce per sei mesi a Caen, trovando lavoro come addetta alle pulizie attraverso l’ufficio di collocamento locale; si inserisce nella comunità, facendo amicizia con un gruppo di lavoratrici che ignorano la sua autentica professione e il suo vero obiettivo. L’impiego più continuativo, per Aubernas, è il turno serale delle pulizie sul traghetto di Ouistreham, 60 letti da rifare in un’ora e mezza per 250 euro al mese; la giornalista annota minuziosamente dati e sensazioni, tragitti per raggiungere a proprie spese posti di lavoro lontani e sottopagati, frasi estrapolate dai corsi di formazione, testimonianze di chi fa da sempre questa vita. Allo stesso tempo, Aubernas non scrive un saggio, ma racconta una storia: ne viene fuori Quai de Ouistreham, un libro importante che descrive meglio di altri la crisi economica di quegli anni, vince svariati premi e vende un gran numero di copie.

Una delle lettrici più appassionate di Quai de Oustreham è Juliette Binoche, che contatta Aubernas per sondare la possibilità di un adattamento cinematografico in cui vuole interpretare la giornalista impegnata nella difficile inchiesta; Aubernas acconsente e suggerisce che a dirigerlo sia Emmanuel Carrère. Il film realizzato dimostra l’efficacia di questa scelta, per i motivi che andremo a evidenziare. Una chiave di lettura ci è offerta da Marcos Uzal, critico dei “Cahiers du cinéma”, che ha definito efficacemente Ouistreham come «la mise en abîme di un certo cinema francese». Vuol dire che Carrère non si limita a mettere in scena l’esperienza raccontata nel libro, ma mostra l’artificio che attraversa tutta l’indagine, analizza l’impostura della maschera, problematizza l’essere “tra due mondi”, come recita il titolo italiano del film. Ciò che interessa a Carrère non è solo la condizione delle lavoratrici di Caen, ma il fatto che Aubernas-Binoche senta tutto il peso della finzione; più forti sono le relazioni umane che si creano, più la donna soffre per l’inganno che porta avanti. Nelle parole di Carrère: «C’è una patina di menzogna, qualcosa di hitchcockiano, di fittizio nel film, ci si chiede quando la maschera cadrà».

La sceneggiatura di Carrère ha una struttura molto nitida suddivisa in tre parti fondamentali, che corrispondono proprio alla corrosione progressiva della “patina di menzogna”. Nella prima parte, la protagonista si presenta anche allo spettatore come una donna della classe media che ha lasciato gli studi vent’anni prima per dedicarsi alla famiglia e che, dopo il divorzio, si ritrova senza risorse e deve ripartire da zero con un curriculum privo di titoli e requisiti. Alla mezz’ora, la finzione è rivelata allo spettatore; da adesso in poi, per tutta la seconda parte, vedremo la donna recitare una parte, fino a quando, al punto di svolta che conduce alla terza parte, un incontro fortuito sul traghetto fa emergere la finzione anche agli occhi delle colleghe di lavoro. In conclusione, il film fa un salto temporale in avanti e ci mostra le conseguenze delle azioni: il libro esce, Aubernas-Binoche lo presenta a Caen. Tra il pubblico ci sono alcune delle donne conosciute durante l’inchiesta: tutte hanno capito e approvato i fini della giornalista, non tutte hanno approvato i suoi mezzi. Dopo un ultimo incontro con l’amica più stretta, che la invita provocatoriamente a fare ancora un turno sul traghetto, la protagonista rinuncia definitivamente a una messa in scena che “ora”, dice, “non ha più senso”.

L’inchiesta di Aubernas diventa così del tutto un racconto di Carrère, in cui le persone da una parte sono proprio ciò che sono (il regime dell’autofiction), dall’altra si dispongono sotto il segno del doppio: il paradigma di questa stratificazione è chiaramente L’avversario, in cui il protagonista interrompe ben più crudelmente la propria messa in scena. In Tra due mondi, Binoche è Aubernas ma non smette mai di essere Binoche, la star del cinema francese che si mescola a un gruppo di schiette non professioniste del posto e recita il recitare, introiettando e sperimentando il senso di colpa di Aubernas. Dando un profondo senso drammaturgico all’inchiesta pubblicata nel 2010, Carrère però non tradisce affatto il senso politico dell’operazione, anzi lo potenzia, perché lavora sulla distanza incolmabile tra chi dispone di tempo da dedicare a una giusta causa e chi deve destinare tutto il proprio tempo a soddisfare i bisogni primari.

Collocandosi nella misura immutabile di questa distanza, Carrère trova una cifra stilistica coerente, evitando anzitutto la messa in quadro e la sintassi del documentario militante. Chiede al direttore della fotografia Patrick Blossier una continuità luministica tra notte e giorno, tra esterni e interni, come se i personaggi fossero costantemente immersi in un’atmosfera caliginosa; a questa chiusura dell’orizzonte dà un contributo simbolico molto forte la partitura musicale minimal-glassiana di Mathieu Lamboley, empatica ma strutturalmente priva di sviluppo, proprio come il personaggio che la protagonista impone alle ignare colleghe. Tutto concorre a una rappresentazione unitaria che espone, letteralmente, il proprio punto di vista sulla realtà, nel senso che lo espone anche al giudizio etico; citando ancora Uzal, Tra due mondi è un film in cui una classe sociale ne osserva un’altra, ma senza «il desiderio illusorio di ridurre le distanze».

Tra due mondi. Regia: Emmanuel Carrère; sceneggiatura: Emmanuel Carrère; montaggio: Albertine Lastera; fotografie: Patrick Blossier; musiche: Mathieu Lamboley; interpreti: Juliette Binoche, HélèneLambert, Louise Pociecka, Steve Papagiannis, Aude Ruyter, Jérémy Lechevallier, Kévin Maspimby, FaïçalZoua, Arnaud Duval,  Didier Pupin, Léa Carne; produzione: Ciné France Studios, Curiosa Films, France Téléevision Distribution; distribuzione: Teodora Film; origine: Francia; durata: 106’; anno: 2022.

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