«Avvocà, ‘e ssapite chilli vascie…, i bassi. A San Giuvanniello, a ‘e Virgene, a Furcella, ‘e Tribunale, ‘o Pallunetto!». È la Filumena Marturano eduardiana a parlare, quando ripercorre le tappe della sua vita di stenti, dopo essere “resuscitata” sotto gli occhi di Domenico Soriano, «nire, affummecate […]. Addò nun ce sta luce manco a meziuorno… io parlo napoletano, scusate… dove non c’è luce nemmeno a mezzogiorno». Nei vicoli, nei budelli napoletani, lo sappiamo e lo vediamo (almeno dal Boccaccio della novella di Andreuccio), si aprono direttamente nella polvere delle stradine questi spazi, queste cavità, questi “habitat” inconfondibili, che rievocano le casbah e gli ipogei grechi. Riversano l’interno, intriso di vissuto, di urla, di giaculatorie, di risate, di litigi, di pianti infantili, di musiche impastate e iridescenti immagini televisive mescolate ai lumini degli altarini di santi, morti e madonne, all’esterno, dal buio alle lame di luce che, molto cinematograficamente, squarciano i vicoli.

È un perfetto microcosmo teatrale, che concentra e diffrange tutto quel “teatro della vita” di cui gli abitanti di questa città sono continui interpreti e intercessori. A cogliere tale intrinseca vocazione del basso napoletano come scena è stato un teatro radicato nell’antico rione della Sanità, dove ancora riluce la sopravvivenza di un lume tutelare, di un Lare come Totò. Si tratta del Nuovo Teatro Sanità che già da un po’ di anni viene fatto vivere da un regista-drammaturgo come Mario Gelardi, non solo con una stagione di spettacoli attenta alla novità e alla ricerca, ma anche con il coinvolgimento dei ragazzi e dei giovani del quartiere tramite una scuola di spettacolo e una serie di laboratori.

In questo caso l’artefice, con tutto il gruppo del NTS, è stato un giovane attore-regista, formatosi in questa fucina di talenti, Carlo Geltrude. L’intuizione è quella di una forma che già da tempo, ad esempio nella realtà urbana newyorkese anni ’80 (lo Squat Theatre), è stata sperimentata: il teatro di “appartamento” per pochi spettatori e con l’uso di una vicinanza intima tra pubblico e attori. Ma qui c’è qualcosa in più, insieme di nuovo e di antico. Non si tratta di un appartamento ma di un ambiente architettonico singolare, e ancora vivo,  come il basso napoletano.

Dentro questi ambulacri, che ritagliano l’esterno facendolo transitare nella sola apertura che riversa quella vita privata nello spazio pubblico, una porta finestra, che ci appare come una forma di inquadratura: una “secolarità” che si rinnova, mentre tutti i tempi e le memorie rigurgitano e si affastellano anacronicamente. Si tratta proprio (per dirla con una idea elaborata da Walter Benjamin e Asja Lacis durante un viaggio a Napoli negli anni ’20 e rielaborata da Alfred Sohn-Rethel) di porosità (come la pietra di tufo che questa città crucifera, orizzontale-verticale, a cielo aperto e penetrata nelle viscere della terra in cui ribolle il fuoco vulcanico, modella e scava, con cui permea il suo colore giallo-cinerino). Ma anche, per riprendere un concetto warburghiano, di Nachleben, di reviviscenza.

Ora, l’idea di questo Tur de Vasc è quella della “visita teatrale”. Siamo condotti da un gruppo di giovani in motorino (esattamente i mezzi con cui i nuovi scugnizzi scorazzano per Napoli) che fanno da guida, che ci interpellano, ci raccolgono, fanno commenti, ci sollecitano in una promenade notturna nei vicoli della Sanità, fino ad entrare in tre diversi “vasci”, e accomodarci in essi, che si dispiegano come scena. I primi due abbastanza lindi, con la cucina moderna a vista, il divanetto, perfino un minuscolo soppalco, e il terzo invece proprio l’eduardiano stanzone “niro”, senza finestre, umido, con il lettone matrimoniale di ottone, il quadro della Vergine e il lumino davanti alla foto del caro estinto. Ebbene, quasi fosse un film a episodi (come il marottiano L’oro di Napoli di De Sica), entriamo nel vivo, direi in una vivente “virtual reality”, di una azione che avviene lì ed ora, che viene vissuta (con un piglio post-naturalistico), dis-interpretata e insieme recitata da attori straordinari.

Eppure questa azione di teatro vivente è puro Cechov, anzi sono proprio due celebri atti unici cechoviani (L’orso e Una domanda di matrimonio) che avvengono con una flagranza stupefacente nel tempo teatrale e nel tempo reale insieme, come dei lacerti, delle tranche de vie. La grande civiltà teatrale napoletana (che si dipana almeno dal ‘600) e la civiltà teatrale russa del Novecento, sono state in sede critica già avvicinate. Si è detto che l’intimismo, il fatalismo, lo scetticismo, il crepuscolarismo e le piccole speranze vissute tra popolo e piccola borghesia, il mistero dell’animo umano in sintonia con le “aure” dei luoghi e degli interni, la crudeltà e insieme la pietà, sono atmosfere che accomunano Eduardo e Cechov. L’impasto animico cinico-sentimentale oppure gioioso-doloroso avvicinano il napoletano al russo. Ma finora in teatro (fatto salvo un precedente di diversi anni fa, Vespertelli, ad opera di Francesco Saponaro) non si era vista una tale “incarnazione” di queste due anime teatrali.

I giovani drammaturghi del Nuovo Teatro Sanità hanno, per i primi due pezzi, riscritto Cechov in dialetto “dei bassi”, L’orso e ‘O spusalizio, con un piglio che sembra far rivivere lo spirito di Raffaele Viviani. Soprattutto nella sanguigna presenza degli attori, oltre che nella lingua drammaturgica: il febbrile Riccardo Ciccarelli, la guizzante Anna De Stefano, una Lalla Esposito che pare ridipingere la Magnani, e un pirotecnico Agostino Chiummarello. Mentre, nel pezzo inventato su registri che uniscono Cechov a Mastriani, La bolletta, scritto da Gelardi, si scatena il delirio del Lotto nell’allucinata presenza di un fenomenale Luciano Saltarelli e nel controcanto dolente di Laura Borrelli.

Ma il progetto comprende, oltre al Cechov “int’o vascio”, altri tre pezzi che fanno apparire sotto una luce iperreale “storie nuove” di vite a perdere, di esistenze segnate dalla fame e dal disagio. Ne emerge lampante ed emozionante quel lato tribale, quel tratto e quel gesto rituale del napoletano che affascinava Pasolini, così come coinvolse e fece riflettere Walter Benjamin, in viaggio per Napoli con Asja Lacis. Il filosofo e la Lacis firmano sulla “Frankfurter Zeitung”, nell’agosto del 1925, un articolo dal titolo essenziale, Napoli: 

Napoli è dunque una sorta di zona oscura della modernità, una sopravvivenza nel cuore stesso di quel passaggio cruciale che Benjamin indagherà nel passagenwerk. Sopravvivenza, in tedesco, Nachleben. È questo il termine che utilizza Aby Warburg per descrivere la permanenza nelle immagini contemporanee del passato, delle sue forme e dei suoi gesti. Una permanenza che non è mai pacifica o basata sulle leggi della derivazione e della filiazione ma agisce, potremmo dire, inconsciamente, come una forza arcaica che agita la modernità (Dottorini 2008, p. 154).

E cifra di questa commistione tra arcaico e moderno è appunto l’idea di un basso mimetico, di un tragicomico grottesco, ma anche di una visionarietà tutta dissolta nell’ipernauralismo che, come succede a ogni passo di quel labirinto misterioso e incantante che è Napoli (cui bisogna essere iniziati per entrarvi in sintonia), traluce nel vapore del sogno.

Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, A.S ohn-Rethel, S.Kracauer, E. Bloch, A. Lacis, T.W. Adorno, K. Lowith (a cura di E. Donaggio), Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2000.
E. De Filippo, Filumena Marturano, Einaudi, Torino 1997.
D. Dottorini, Rileggere Benjamin: la forma della città, la doppia immagine della modernità, Cahiers d’etudes romanes, Aix Marseille Université, Marseille 2008.

*In anteprima e in copertina una foto di Ciro Battiloro.

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