Un’opera parallela. Tosca come Ada, Cavaradossi come Marco, i due cantanti/partigiani del film di Carmine Gallone del 1946 Avanti a lui tremava tutta Roma, ispirato all’opera di Puccini. Scarpia come un generale dell’esercito nazista. Un enorme macchinario cinematografico che è nuovamente strumento per uno scavo filologico, registico e musicale (con il recupero dei passaggi eliminati da Puccini dopo la prima al Costanzi di Roma del 1900), sull’origine del dispositivo melodrammatico ottocentesco e sulla «invenzione del cinema dallo spirito della musica». Come era stato già per l’Attila di Verdi che aveva inaugurato la stagione scaligera 2018/19, sempre con la regia di Davide Livermore e la direzione di Riccardo Chailly. Anche lì, la prossemica della scena riprendeva e ripeteva quella dell’immagine in movimento: il buio della sala su cui si spalanca la porta da cui entra, in una corsa surplace, Angelotti all’inizio del primo atto; o il lungo “piano sequenza” simulato attraverso il continuo dinamismo delle navate di Sant’Andrea della Valle, a mimare le inquadrature della macchina da presa; fino al movimento in rallenti dei soldati mentre Tosca, con una traiettoria ascensionale, si innalza “gettandosi” da Castel Sant’Angelo nel finale dell’opera.
In altre parole, lo spettacolo operistico come grande riflessione sull’origine del cinema, sulla drammaturgia musicale come linguaggio cosmopolitico da cui si generano primi piani e campi lunghi, i movimenti di macchina e quelli degli ambienti. E ancora la forma melodrammatica italiana come dispositivo capace di anticipare le grandi rappresentazioni cinematografiche novecentesche della storia del nostro Paese, quel «melodramma della nazione» che, nella nostra tradizione, ha attraversato prima le grandi narrazioni operistiche (Ottocento) e poi filmiche (Novecento). Il melodramma quindi come forma preminente del racconto dell’identità italiana, dal palcoscenico all’immagine, secondo quella linea di pensiero che comincia con la Filosofia della musica di Giuseppe Mazzini e la sua idea sul portato storico-politico dello spettacolo operistico, passa per le riflessioni di Antonio Gramsci sui rapporti tra il cinema e l’opera di Verdi, e arriva fino all’esperienza cinematografica e teatrale di Visconti, Bertolucci, Bellocchio e Martone.
Questa, in sintesi, la cifra de la Tosca di Giacomo Puccini diretta da Davide Livermore con la direzione di Riccardo Chailly che ha inaugurato la stagione 2019/20 del Teatro alla Scala di Milano. Una sorta di opera cinematografica “parallela” che fa da pendant alle produzioni scaligere recenti (tutte di taglio cinematografico) dell’Andrea Chénier, della Madama Butterfly e della Francesca da Rimini. L’ultimo tassello di un percorso tra le forme veriste proposto da Chailly negli ultimi anni che, attraverso la cifra cinematografica dei registi che si sono alternati (da Livermore a Martone), ha inteso valorizzare l’intera tradizione novecentesca europea alla luce dell’eredità italiana tardo-ottocentesca (il cui portato è stato spesso considerato il semplice effetto reificato dell’influenza dell’estetica di Wagner dentro le forme popolari dell’opera italiana).
Ma perché questo esperimento operistico-cinematografico questa volta sembra essere riuscito perfettamente, più di molti suoi precedenti? Mi è capitato di scrivere altrove come, alla pari di gran parte delle opere italiane coeve, Tosca rappresenti in effetti il tentativo di ridefinire l’eredità del Tristano wagneriano dentro i confini della forma popolare italiana. L’opera di Puccini tematizza infatti il rovesciamento del paradigma romantico del melodramma di Verdi, cercando di riformulare i valori del Tristano all’interno di una dialettica storica in cui l’amore, l’annullamento soggettivo e simbiotico dentro l’astrazione della “notte” del mondo (la vicenda della coppia Tosca-Cavaradossi che termina con la morte), è contrapposto all’inautenticità del “giorno” (in questo caso gli avvenimenti che seguono il crollo della Repubblica romana), in cui si consumano dinamiche di potere puramente illusorie.
Tosca è cioè l’opera in cui il destino dell’umano, che Verdi vedeva dentro un orizzonte storico e politico, è ripensato interamente nell’aldilà, nella fuga simbiotica dal mondo degli amanti di cui la morte non è che la conseguenza necessaria e obbligata. È così che, secondo il grande modello tristaniano, se Tosca e Cavaradossi morendo ritrovano quell’unità che il mondo gli nega, in maniera del tutto opposta Radames e Aida, nell’omonima opera di Verdi, vivono la morte come l’esito tragico di un amore che ha “tradito” il ruolo politico soggettivo che la Storia aveva affidato a entrambi. Ancor più che per Verdi dunque, il portato drammaturgico-musicale dell’opera di Puccini è intimamente cinematografico perché fondato su un’immaginazione melodrammatica iperbolica e astratta, in cui il cosmopolitismo del linguaggio musicale, svincolato da qualsiasi dialettica storico-politica, ha corrisposto in termini diretti a quello dell’immagine.
Abbandonate le contraddizioni etiche e politiche in cui erano costretti i personaggi di Verdi (da Attila ad Aida), la struttura melodrammatica di Tosca è dunque astrattamente immersa nella “pura vita”. E ciò ha corrisposto a una forma proto-cinematografica della propria drammaturgia musicale grazie a una rappresentazione veicolata da un sinfonismo orchestrale, dall’abissale astrazione dei codici musicali contrapposti a quelli storici e soggettivi della vocalità romantica (e non è un caso che i grandi passaggi sinfonici veristi siano diventati perfette colonne sonore cinematografiche).
Se dunque “E avanti a lui tremava tutta Roma”, come grida Tosca nel secondo atto dopo aver ucciso Scarpia, da frase operistica è traslata immediatamente in sintagma cinematografico, il movimento di ritorno proposto da Livermore e Chailly il 7 dicembre è stato altrettanto immediato. Questa, in definitiva, la ragione del suo successo.
Riferimenti bibliografici
F. Ceraolo, Opera, in Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, vol. II, a cura di R. De Gaetano, Mimesis, Milano 2015.