Tosca è un’opera in cui i tempi e gli spazi dell’azione giocano un ruolo primario, in un intreccio fittissimo che non ha uguali nella storia del melodramma. L’azione si svolge in meno di una giornata (le 24 ore di Edipo re che sono il tempo ideale per la tragedia secondo Aristotele), dal tardo pomeriggio all’alba del giorno dopo, con un ritmo vertiginoso che ricorda il cinema d’azione; d’altronde già nel dramma di Victorien Sardou, fonte del libretto, non mancano elementi tipici del poliziesco: pedinamenti, indagini, torture, interrogatori. Lo scorrere implacabile del tempo diventa un tema esplicito, con cui il terribile capo della polizia, il barone Scarpia, esercita il suo potere e il suo ricatto sessuale sulla protagonista. I tre luoghi dell’azione, Sant’Andrea della Valle, Palazzo Farnese e Castel Sant’Angelo, hanno un forte valore scenico e simbolico, e richiamano le fasi fulgide della storia di Roma: classicità, rinascimento e barocco.
Inoltre, il ritmo della Storia incombe su questo cronotopo così perfetto, se si pensa all’irrompere della vittoria di Napoleone a Marengo nel pieno del concitatissimo secondo atto. Tosca è infatti l’unica opera pucciniana ricca di riferimenti politici: una sorta di «realismo storico» come lo ha definito Michele Girardi. Far andare in scena proprio a Roma a inizio del nuovo secolo, il 15 gennaio 1900, la prima assoluta di un’opera il cui eroe positivo è un volterriano (quel Voltaire che i garibaldini esaltavano in contrapposizione alla Chiesa) fu certo un’impresa ardita da parte della casa Ricordi, anche se la prima versione del libretto venne mitigata, provocando la protesta del librettista repubblicano e rivoluzionario, Luigi Illica.
Girare Tosca in diretta televisiva nei tempi e nei luoghi dell’azione, come fece nel 1992 Giuseppe Patroni Griffi, aveva dunque un senso. Le regie creative che hanno rinunciato all’ambientazione originale lo hanno fatto sulla base di progetti estetici radicali, come la Tosca di Baden Baden secondo Philipp Himmelmann (2017), calata di una gelida dimensione totalitaria, ispirata da Matrix; o ancor più la Tosca di Calixto Bieito per l’opera di Oslo (2017), priva di intervalli, volutamente sgradevole e nichilista, con i due amanti separati da un tunnel buio e Cavaradossi trasformato alla fine in un clown (da leggere il saggio di Cosso sulle regie). In questi due casi abbiamo un azzeramento totale dello spaziotempo di Tosca, per universalizzare i suoi conflitti drammatici; diverso è il caso della messinscena di Jonathan Miller per il Maggio Musicale del 1986, che riadattava l’azione a un altro momento drammatico della storia di Roma, l’occupazione nazista, sfruttando così le memorie cinematografiche di Roma città aperta.
Scegliere di conservare l’ambientazione originale non significa per forza scadere nella riproduzione oleografica dei luoghi famosi. Nel 1997 alla Scala Luca Ronconi fondeva fra di loro i tre luoghi, evocando un potere oppressivo e labirintico. Quest’anno David Livermore decide invece di dinamizzare gli spazi, creando un sistema di macchine barocche e di figure di contorno (ad esempio un gruppo di suore inquietanti). Nella prima recensione a caldo qui su Fata Morgana Web, Francesco Ceraolo ha messo in luce il carattere fortemente cinematografico di questa regia. Aggiungerei anche un rapporto consistente con la videoarte, e soprattutto con Bill Viola (autore non a caso di uno splendido Tristano e Isotta): in particolare nel secondo, pittoricissimo atto, in cui lo spazio si scompone fra la scena nello studio di Scarpia (con i video degli affreschi animati), l’intrascena della tortura di Cavaradossi (visualizzata facendo salire in alto la scenografia), e il fuoriscena della cantata di Tosca, percepito da una finestra che diffonde una luce abbagliante, violentemente caravaggesca.
La lettura di David Livermore ruota attorno a due nuclei tematici strettamente legati fra di loro: il metateatro e il doppio. Il primo è inscritto nel libretto, il secondo è invece una creazione idiosincratica del regista, che ha affrontato, sempre nel 2019 al Teatro greco di Siracusa, l’archetipo antico di questo tema, l’Elena di Euripide. Tosca è innanzitutto la storia di una grande diva, pensata per Sarah Bernhardt (Puccini ne rimase ammaliato); Illica e Giacosa hanno perciò amplificato una serie di riferimenti metateatrali di Sardou (messi a fuoco da Guido Paduano), dal «Mai Tosca alla scena / più tragica fu» di Scarpia, al «Come la Tosca in teatro» di Cavaradossi, fino alla straziante ironia tragica della protagonista che esclama «Ecco un artista» nel momento in cui vede cadere il suo amato, e pensa ancora che si tratti di una fucilazione simulata, e non di una finzione di terzo grado.
Credo che vada letta in questa chiave l’idea di far comparire un doppio di Tosca che ripete il gesto dell’uccisione di Scarpia nella sezione in decrescendo con cui si chiude il secondo atto; e di farlo ricomparire nel finale (più lungo in questa versione della prima assoluta, in cui torna il motivo di «E lucean le stelle»), nel momento cruciale del suicidio da Castel Sant’Angelo, legato a famigerati disastri nella storia dell’opera, e qui risolto in modo molto cinematografico, come se la macchina da presa salisse in alto e ci mostrasse la protagonista in aria, in ralenti (non direi che si tratti di un’ascensione, poco adatta a un’opera così anticlericale). Il doppio è dunque Tosca come icona, come diva: e non a caso l’iconografia liberty l’ha eternata nel gesto scandaloso dell’omicidio. Questa lettura metateatrale non esclude un’altra più psicologica: l’intreccio forsennatamente melodrammatico ha spinto Tosca a compiere un atto lontanissimo dalla sua natura (come l’Elena adultera che sdoppia l’Elena casta in Euripide); e questo atto la ossessiona fino alla catarsi tragica.
Veniamo dunque alla versione presentata qui per la prima volta, che mira a ricostruire l’edizione romana del 1900. È una scelta che rientra nella meritevole ricerca filologica del maestro Chailly sull’opera di fine Ottocento: per fortuna non viene presentata, nel saggio di Roger Parker del programma di sala, come il recupero di un vero originale, ma solo come un arricchimento conoscitivo, e in quanto tale di innegabile utilità (filologia, estetica e teoria della letteratura da tempo sostengono che l’ultima versione d’autore è tale solo per motivi cronologici, e che tutti i testi sono plurali). Detto questo, i nuovi brani non mi sono sembrati un guadagno, al contrario li direi particolari giustamente tagliati da Puccini nella sua ricerca di asciuttezza, compattezza, efficacia drammatica.
Il movimento incessante di scene e figure non inibisce l’espressività dei vari cantanti, a partire da Alfonso Antoniozzi, che con la mimica facciale e la gestualità brillante di cantante rossiniano risolve il ruolo del sacrestano senza alcuno scadimento macchiettistico; con il suo timbro metallico e squillante Luca Salsi rende bene l’affascinante sadismo demoniaco di Scarpia, circondato da sgherri in pelle nera e rossa; chi scrive ha sentito alla quarta rappresentazione il sostituto di Francesco Meli, il georgiano Otar Jorjikia, che se l’è cavata egregiamente in un ruolo certo non facile, affidatogli all’ultimo momento. Spicca su tutti, ovviamente, la Tosca di Anna Netrebko, che con il suo splendido colore omogeneo, e la sua capacità di combinare lirismo elegiaco e intensa drammaticità, offre un’interpretazione innovativa, in linea con la complessità e lo spessore che Chailly e Livermore donano alla protagonista.
Riferimenti bibliografici
L. Cosso, Le ambientazioni di un archetipo: regie di “Tosca”, in Tosca, Teatro alla Scala, Milano 2019.
M. Girardi, Da “La Tosca” a “Tosca”, “la” prima donna “fin de siècle”, in Tosca, Teatro alla Scala, Milano 2019.
G. Paduano, La scenica scienza di Tosca, in Il giro di vite, La nuova Italia, Firenze 1992.
R. Parker, “As A Stranger Give It Welcome”: la prima “Tosca”, in Tosca, Teatro alla Scala, Milano 2019.
Tosca. Regia: David Livermore; direzione: Riccardo Chailly; musica: Giacomo Puccini; scene: Giò Forma; costumi: Gianluca Falaschi; luci: Antonio Castro; video: D-Wok; interpreti: Anna Netrebko, Francesco Meli, Luca Salsi, Carlo Cigni, Alfonso Antoniozzi, Carlo Bosi, Giulio Mastrototaro, Ernesto Panariello, Gianluigi Sartori; durata: 180′ inclusi intervalli.