Il cinema degli ultimi anni ci ha abituato a una presenza significativa di biopic, film biografici, realizzati da produzioni indipendenti e non. Nico, 1988 di Susanna Nicchiarelli, il bel film sugli ultimi anni di vita della cantante tedesca, o L’ora più buia di Joe Wright, sull’ascesa a primo ministro di Winston Churchill, non priva di conflitti, per citare soltanto un paio di titoli molto recenti e di qualità. Il legame tra cinema e biografia è fervido; la via che si sceglie per trasporre la vita illumina la vita stessa attraverso una narrazione nuova e tramite la scelta di linguaggio e di registro.
Questo è il caso di Tonya, del regista australiano Craig Gillespie, il film su Tonya Harding, l’aggressiva – quanto indifesa – pattinatrice americana che per prima riuscì a eseguire in competizione un triplo axel, un salto difficilissimo da fare su una pista ghiacciata, sia per la particolare inclinazione che il corpo deve sostenere durante la rotazione sia per la forza fisica necessaria. La vita, la carriera e lo scandalo sportivo di cui la Harding fu protagonista offrono materiale denso di una vita davvero difficile da raccontare, per la violenza senza appello su cui è strutturata, ma anche per l’intricato legame tra sentimenti, rabbia, calcolo. In questa storia, come nella vita, ognuno mostra la propria versione del proprio vissuto, ognuno ha la propria verità da raccontare, ma in Tonya la verità personale si plasma quasi più per contrasto con la verità dell’altro che non come verità in sé.
Gillespie non racconta la vicenda biografica di Tonya Harding, sceglie piuttosto di farla rivelare dalla Harding stessa e dalle persone che ruotano nella sua vita e nelle sue vicende sportive: la madre, il fidanzato e poi marito Jeff, la sua allenatrice. Una serie di false interviste in stile mockumentary sono il filo narrativo attraverso cui si sviluppa la storia: i protagonisti, in primo piano, raccontano la vicenda ma, soprattutto, si raccontano. Attraverso la falsa intervista l’Io si racconta direttamente, senza mediazioni, ed è quell’Io rimosso nel titolo italiano, eppure così potente per comprendere la chiave emotiva ed estetica di questo film (il titolo originale è I, Tonya). A parlare sono tutte figure mostruose, nel senso etimologico del termine, ovvero che mostrano qualità specifiche, estreme, eccessive, eccezionali, in senso negativo o positivo.
La vita di Tonya Harding è un mix straordinario di violenza, ingiustizia, sadismo, successo e disfatta. Tonya ha quattro anni appena quando la madre la porta ad allenarsi per la prima volta, nel film il desiderio sembra nascere dalla bambina e questo sembra l’unico slancio spontaneo della Harding, dall’inizio alla fine della storia, un desiderio vivo, fatto di rabbia e rivalsa da una condizione di povertà; è un desiderio, però, legato anche alla possibilità di piacere, quando il piacere si unisce all’accoglienza e all’amore. Una delle frasi ripetute più spesso dalla Harding – o, meglio, dalla bravissima Margot Robbie che la interpreta – è: «mi amavano» o «mi adorano» riferita al pubblico, a quegli americani middle class talmente lontani da lei e dalla sua famiglia triste, a pezzi, da quell’America scomoda che vive tra bar di spogliarelliste – dove il marito di Tonya e un amico bevono birra e immaginano un piano che metta in difficoltà la rivale della Harding alle Olimpiadi – o che serve hamburger in una tavola calda – come la madre o la Harding stessa – e che sembra non possedere la necessaria classe, sociale ed estetica, per poter meritare un punteggio equo alle gare soltanto grazie alle doti sportive che dimostra.
Quella pista bianca, immacolata, su cui vediamo pattinare Tonya per la prima volta, resta l’unica immagine di purezza del film. Il contrasto tra la lastra di ghiaccio, la luce abbagliante dei riflettori e i costumi sfavillanti in cui Tonya esegue piroette sono quanto di più lontano dalla quotidianità della sua vita, fatta di povertà affettiva e materiale, violenza domestica, buio. Una scissione che nel film viene esaltata dalla fotografia, che rende ancora più kitsch e colorate le scene sportive, e opache le scene di vita quotidiana, negli interni quasi invasi da un triste e onnipresente color grigio-seppia. È lo stesso contrasto esistente tra una vita fatta, da un lato, di body e paillettes e, dall’altro, di jeans sdruciti e finte pellicce fai-da-te. E questo contrasto, intrinsecamente tragico, è al contempo anche involontariamente ironico.
L’ironia è il registro principe del film, quasi fosse l’unica via per rendere sopportabile la narrazione di una vita intollerabile, per allontanare illusoriamente l’eccesso di violenza e contemporaneamente ingrandirlo, come attraverso una lente, permettendo anche un’empatia altrimenti, forse, difficilmente possibile. Non solo, l’ironia emerge involontariamente, quasi un motto di spirito, continuo lapsus che mostra ciò che di una vita e di personaggi così scomodi si vorrebbe non svelare mai e che loro, i protagonisti, non vorrebbero mai svelare a loro stessi. La prima immagine del film è un’avvertenza, scritta in bianco su fondo nero, il cui senso è: l’ironia che emerge dalle interviste che seguiranno è involontaria, emerge inconsapevolmente, non è voluta. L’ironia involontaria è la chiave di svelamento di un Io che così può raccontarsi senza censure agli altri e a sé stesso, che può narrare la propria verità per quanto squallida, caotica, bassa o vergognosa possa essere: le botte tra un marito e una moglie, una madre disperatamente dura e anaffettiva perché a sua volta non amata, un padre lontano, dei giudici di gara disonesti.
L’ironia è anche ciò che permette una lotta, altrimenti insopportabile, in una vita tragica che alla sua tragicità non si arrende mai. E così Tonya, squalificata a vita dalle gare di pattinaggio per l’aggressione a un’altra pattinatrice americana in cui pare essere coinvolta, passa dal body rosa, ombretto e rossetto del pattinaggio ai paradenti e ai guantoni da boxe. Anche in questo caso il film di Gillespie rovescia uno dei topoi del cinema americano: la giustizia. Il processo alla Harding arriva a una verità ma il film lascia che questa verità non diventi certezza di giustizia. La colpevolezza o non colpevolezza, la giustizia o ingiustizia della condanna restano volontariamente indefinite.
Se l’ironia è anche rovesciamento, in questo film – e in questa biografia – i rovesciamenti sono tanti e continui. È questa chiave che permette di mostrare, senza giudizio e senza retorica, se non la verità, almeno l’autenticità di un Io nel momento in cui si mostra in ogni sua contraddizione e fragilità. Un Io che si racconta nonostante sé stesso.
Riferimenti bibliografici
T. Brown, B. Vidal, a cura di, The Biopic in Contemporary Film Culture, Routledge, New York 2013.
S. Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, a cura di N. Cappelli, Rizzoli, Milano 2010.