Il sipario del Teatro Mercadante si apre su uno spazio vuoto dove campeggia soltanto un podio marmoreo, una sorta di pulpito con il simbolo dell’ONU: il logo, in bianco su campo azzurro, con il globo terraqueo centrato sul Polo e inscritto in quattro cerchi concentrici, incorniciato da due rami di ulivo. Eppure quei cerchi concentrici sono anche quelli di un mirino. Il mondo che auspica la pace è pur sempre sotto la mira di una minaccia, cui l’ideale della concordia e della solidarietà umana devono far fronte. Siamo messi al cospetto di una situazione globale: il simbolo del consesso delle Nazioni Unite spostato sul palcoscenico di un teatro è come se ci convocasse tutti a quel momento assembleare in cui risiede proprio il senso della teatralità. E ciò in un frangente come quello attuale in cui siamo, con l’intero mondo, continuamente sotto mira, noi bersagli inermi di un invisibile nemico come il virus pandemico.
Lentamente, appoggiandosi a un bastone, con un vestito stazzonato e un cappello sgualcito, attraversa la scena un uomo anziano, e si dirige verso il podio, sistema i microfoni, apre un quaderno di fogli. È una sorprendente entrata in scena. In un certo senso inaspettata. Perché il pubblico riconosce nel corpo incurvato, claudicante, un grande attore come Toni Servillo, ma nello stesso tempo, vertiginosamente, proietta su di lui una presenza, una singolarità anonima, come se si trattasse dell’incarnazione dell’intera umanità che da lì a poco prenderà voce, assumerà la parola di un poeta, si farà attraversare dalla straordinaria eco di una lode al mondo. E ciò proprio nei tempi in cui questo mondo vacilla, sembra sul punto di crollare sotto i colpi di un male misterioso, e che potrebbe finire, come scriveva T.S. Eliot in The Hollow Men, «non già con uno schianto, ma con un lamento». Eppure non siamo convocati a una “trenodia”, a un canto funebre, bensì al contrario a una laudatio, a un cantico che celebra, invoca, intona la semplice immanenza del mondo, la sua bellezza nonostante tutto. Ed è solo nella parola poetica, nella sua risonanza, che ciò si rende possibile, qui ed ora. Infatti l’incipit non è quello di una prolusione. Sono dei versi, la cui musicalità subito prende cadenza: «Perché gli occhi si aprono e / ho un cuore che batte e so / respirare, perché merita lode / il sorriso ed il pianto, / l’orrore e l’incanto // per la fiamma del lampo, / il fico che cade, / lo sforzo di un’ape, il daino / sfregiato, la risacca del mare. / Per questo, Mondo, ti devo lodare».
È la natura, l’animalità, la contingenza e accanto ad esse l’umano, la sonorità del suo respiro, dentro cui ci è dato ascoltare il suono della poesia. Quella sonorità appartiene a un poeta, a uno scrittore, a un drammaturgo come Franco Marcoaldi. Del 2015 è la prima stesura del suo poemetto Il mondo sia lodato (pubblicato da Einaudi), ma all’inquietudine della nostra contemporaneità è affidata una sua riscrittura, una “messa a soqquadro” (come la definisce lo stesso Marcoaldi), una metamorfosi di quei versi che, da un lato, si attagliano alla presenza attorica di Servillo, ne assecondano la sua formidabile capacità di “cantare la parola”, dall’altro si accordano a una intuizione drammaturgica. L’idea cioè di un intervento al cospetto dell’ONU, non già per fornire programmi o proclami, ma molto semplicemente per levare un canto di gratitudine al creato, proprio nel mezzo di una notte oscura che avvolge il mondo. Da qui, appunto per sollevare quel manto oscuro, nei versi di Marcoaldi c’è un ricorrente appello alla luce. Così come insiste una idea insita nello stesso nome del mondo: quella del mondarsi, la capacità cioè di attraversare le lacerazioni della vita drenandone le sofferenze come fosse appunto un processo purificatore, e ciò senza visioni estatiche, senza macerazioni mistiche, ma con il semplice guardare attento al manifestarsi del mondo. Ciò che Simone Weil chiamava la grazia dell’attenzione. Tutto ciò risuona esemplarmente in questi versi del poemetto, quasi un ammonimento, un inviarsi al giusto modo di lodare il mondo:
Dobbiamo metterlo in conto, signori: / la vita procede per strepiti / e strappi, sciagure e fanfare. / E ciascuno va in cerca del gancio/ a cui potersi aggrappare // Sono mille le spine ed occorre fortezza / Occorre, ascoltatemi bene, spurgare. / …E spurgare è pulire, sanare, chiarire: / questa, la vera conversione. / Perché io non penso, sapete, a / estasi avventi oltremondane voci, / ma alla capacità di stare / e di guardare: la luce/ con pazienza. E la pazienza / con la luce, illuminare. / Solo così, mondo, noi ti possiamo lodare.
Così i versi di Marcoaldi si dispiegano nella capacità di Servillo a farne fluire il tono assorto, lo stupore nell’osservare quanto di tersa creaturalità traspare dal darsi quotidiano del mondo e che la musicalità del poemetto accorda nel ricorrere dell’antifona «Mondo, ti devo lodare». In un film di Roberto Andò Le confessioni (2016) Servillo indossava il saio di un frate certosino chiamato a un G8 dell’economia per far luce sul misterioso suicidio di un potente ministro di cui aveva raccolto la confessione. Il nome di quell’enigmatico religioso era Salus, ed era infatti portatore di una sorta di “salvezza”, di liberatoria “salute” all’interno di un groviglio di sensi di colpa serpeggianti tra i potenti. Sembra di scorgere una analogia tra quel personaggio e l’umiltà con cui questa sorta di francescano laico leva il suo inno all’immanenza dell’esistere, pur se avvolta nell’alone perturbante dell’imminenza di ciò che potrebbe sembrare il naufragio della vita come l’abbiamo conosciuta finora, pur nel rivelarsi del lato in ombra, della colorazione che assume il dolore del mondo:
Ditemi dunque, voi che le cose le sapete. / Qual è il colore del dolore? / giallo cromo, minio / blu reale o nero? […] Come che sia. Giusto così, / mi viene da pensare: / prima volare e poi precipitare // salire salire e poi svuotati, / sfiniti, tornare alla realtà. / Allora sì saremo pronti / a lodare l’infinito regno d’immanenza / e accettare, forse, l’imminenza /della morte: come la sorte naturale / di un frutto che maturo, cade.
Quando Servillo quasi diffonde nell’aria immersa nel silenzio assoluto e stupefatto della platea i versi di Marcoaldi è come se ci chiamasse tutti ad unirci al “Cantico laico delle creature” che si leva da una parola che insieme vola e si posa, suggerisce con pudore e considera con una profonda, umana saggezza. Ci invade allora un senso di vertigine ascoltando una specie di “mantra” che fa dischiudere in noi il nocciolo segreto del mondo. La pacatezza e insieme l’incisività della voce di Servillo, del suo tono dimesso eppure denso di sacra pietas, assume l’impalpabilità sottile di un vento che ci investe a poco a poco, insinuando nelle nostre anime la potenza di una rivelazione. Così il mondo cui si rivolge l’encomio e la lode, in qualche modo risponde sotto i nostri occhi. Sullo schermo che funge da fondale, il simbolo dell’Onu comincia a sgretolarsi, a prendere le nuances colorate che lo trasformano in una specie di mandala orientale, a fluttuare in un’aura cosmica, a gonfiarsi di fumi, nello scorrere a volte sanguigno altre volte celeste, come fosse l’impasto del sangue e dell’aria della nostra terra, delle sue acque che sembrano sorgere dagli abissi, dei suoi fuochi che paiono sprizzare, accendersi e spegnersi (i disegni di Lino Fiorito video-animati da Alessandro Papa ed esaltati dal suono arcano di Daghi Rondanini immettono un ritmo di metamorfosi incessante che scorre insieme all’iterazione delle rime e alle assonanze dei versi).
Così questa “preghiera” rivolta al manifestarsi del creato viene investita da una orchestrazione, da un afflato musicale che trascina voce, parola e immagini, come a rivestirla della stessa “musica del mondo”. In tal senso la passione musicale di Servillo, la sua attitudine a giocare i registri della voce come fossero dettati da una partitura insieme precisissima eppure dissimulata in una naturalezza del canto-interpretazione che è sempre una sua interrogazione e mai una mera esecuzione, si riversa nella scelta, che va a integrarsi al poemetto, di un brano di Charles Ives The Unanswered Question. Nel brano di Ives una tromba solista pone The Perennial Question of Existence, a cui un quartetto di legni di Fighting Answerers cerca invano di fornire una risposta sempre più dissonante fino a quando non si arrende al semplice manifestarsi di un mistero.
E per quell’abito dimesso, per quel borsalino sgualcito, per quel bastone con cui l’anziano signore si presenta al consesso (ma insieme al pubblico di un teatro) Servillo si è meticolosamente ispirato proprio a una foto di Ives, chiedendo a Federica Del Gaudio di riprodurne identico l’abito, nella sua scarna e umile essenzialità. Così l’atmosfera visiva e sonora avvolge ed esalta i versi di Marcoaldi ascoltandone l’insita umiltà e rendendo palpabile il senso di empatia che li pervade. «Figurante, deuteragonista e primo attore» si definisce nei versi di Marcoaldi colui che presenta, piuttosto che rappresentare, l’impersonale e laico Cantico della Natura, assolvendo l’umano nell’assorto accordo del cosmo, così come nel miracolo del quotidiano, che può solo darsi nel semplice cantarlo, nel silenzio della vita che si trasmette e transita : «E d’altronde, qual è il fine / del cantante se non quello / di cantare al suo meglio, / la canzone?» Così la somma performatività di Toni Servillo racchiude in una vera e propria incarnazione il fare poetico di Franco Marcoaldi e intona l’accadere del Mondo all’accadere del Teatro, laddove non cessa di risuonare un silenzio ineffabile.
Riferimenti bibliografici
R. De Gaetano, B. Roberti, a cura di, Toni Servillo. Oltre l’attore, Donzelli, Roma 2015.
F. Marcoaldi, Il mondo sia lodato, Einaudi, Torino 2015.
Il mondo sia lodato. Regia: Toni Servillo; testo: Franco Marcoaldi; direzione: Teresa Cibelli; suono: Daghi Rondanini; costumi: Federica Del Gaudio; luci: Angelo Grieco; video: Alessandro Papa; interpreti: Toni Servillo; produzione: Teatro di Napoli – Teatro Nazionale; durata: 75′; anno: 2021.
*L’ immagine presente nell’articolo e in copertina è una foto di Ivan Nocera.